Il primario di chirurgia si opponeva ai ricoveri dei boss era stato minacciato e poi ucciso
In tribunale la moglie e le figlie:«Ciancimino disse:"Ha capito che suo padre se l'è cercata"». La vedova ritrattò per paura
PALERMO - Un delitto dimenticato per trent’anni approda in corte di assise e Palermo torna agli anni bui con la testimonianza della moglie e delle due figlie del professore Sebastiano Bosio, il primario di chirurgia vascolare che si opponeva ai ricoveri facili dei boss, deciso a non trasformare il reparto da lui diretto al Civico nella dependance dell’Ucciardone. Telefonate infuocate con il direttore sanitario dell’ospedale Beppe Lima, il fratello dell’allora potentissimo colonnello andreottiano, minacce ricevute dai boss e dirette intimidazioni fatte dall’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino sono i nitidi ricordi esposti al processo dove si cerca di rendere giustizia al professionista ucciso nel novembre 1981 sotto casa, all’angolo fra via Cuccia e viale Piemonte.
PROEITTILI DIMENTICATI - Un delitto sul quale è piombato un silenzio imbarazzante anche per l’apparato investigativo e giudiziario infine scosso proprio dalle figlie di Bosio, Liliana e Silvia, 23 e 18 anni al momento della tragedia, determinante insieme con la madre Rosalba Patanè a invocare una riapertura delle indagini. Sfociate, grazie a magistrati come il procuratore aggiunto Ignazio De Francisci e alla pm Lia Sava, nell’esame di un reperto abbandonato in un armadio, il proiettili usati quella sera dall’assassino. È bastata una tardiva perizia balistica per incastrare e trasformare in imputato Nino Madonia, all’epoca giovane killer della “famiglia” del quartiere San Lorenzo. Si tratta infatti di proiettili esplosi dalla stessa arma con cui Madonia avrebbe ucciso quell’anno altre due persone. Si arriva così al gruppo di fuoco impegnato nel 1981 con i Corleonesi nella guerra di mafia. Gli stessi che spesso riuscivano a far trasferire i loro padrini dall’Ucciardone in comodi reparti ospedalieri. Ovviamente con complicità eccellenti di medici pronti a piegarsi. Come non accadde con Bosio del quale la vedova ricorda una burrascosa telefonata e un netto «no, non lo ricovero» gridato al direttore sanitario: «A Lima urlò che non lo avrebbe fatto nemmeno se fosse sceso in terra il Padreterno. Di chi parlavano non so. Ma all’epoca veniva spesso ricoverato anche Vittorio Mangano».
IL FLIRT CON CIANCIMIMINO - Ecco il ricordo di un evento che risale «a due, tre giorni prima il delitto» e che probabilmente si riferisce al ricovero negato di un mafioso vicino a Mangano, il boss Pietro Fascella, allora ferito in un clamoroso scontro a fuoco con la polizia, il blitz di Villagrazia. Un no secco svanito nel nulla dopo il delitto visto che Fascella, appena due giorni dopo, sarebbe stato ricoverato in reparto, rimanendovi per sei mesi. Dettagli inquietanti dei quali si occupa la Corte di assise presieduta da Alfredo Montalto, giudice a latere donna, come quattro dei sei giudici popolari. E sul banco dei testimoni le tre donne interrogate dalla Sava che, pur con garbo, è costretta a far emergere pezzi di vita privata. Come succede per Silvia Bosio, oggi funzionario all’ufficio legale della Regione siciliana, due anni prima del delitto in buoni rapporti con uno dei figli di Vito Ciancimino, Sergio, oggi notaio a Milano.
DON VITO IMPLACABILE - Di «un piccolo flirt» ha parlato la madre di Silvia Bosio. E lei stessa ha confermato raccontando di avere incrociato “don” Vito una volta in compagnia di Sergio e, un anno dopo il delitto, una sera al “Brazil”, una discoteca gestita da un altro dei figli dell’ex sindaco: «C’era lui, il "padrino", mi vide, mi fece sedere e con uno sguardo di disprezzo, l’espressione brutta, mi fulminò: "Ha capito che suo padre se l’è cercata? Ha fatto uno sgarbo a un amico di un amico che ha per amico un mio amico. E ha sbagliato...". Io non capivo quella strana filastrocca, stordita, ammutolita. E lui continuava a infierire: "Io sono corleonese di Corleone se lo ricordi...". Ma io non sapevo nemmeno dove fosse Corleone, allora. Quelle parole mi fecero paura. Erano un modo per dire a me, a mia sorella, a mia madre di tacere».
BASTA COL SILENZIO - Altra minaccia evocata davanti ai giudici quella di un killer poi ucciso dai suoi nemici, Mario Prestifilippo, riconosciuto come possibile componente del commando dalla signora Rosalba: «Ne parlai con il dottore Falcone. Partirono le indagini. Ma quello seppe. Un giorno si presentò davanti a mia figlia Liliana, spocchioso: "Mi conosci? Sono Mario...". E un’ora dopo piombò a casa mia, per farsi vedere, per fare capire che eravamo controllate. Io dovevo difendere le mie figlie. Eravamo sole a Palermo. Tornai dal giudice Falcone. Dissi che non ero più sicura. Fu una ritrattazione. "Capisco", commentò Falcone. Ma adesso basta, loro sono adulte, io ho bisogno di verità, è arrivato il momento di parlare». E le sue figlie, confortandola: «Basta col silenzio. Lo diciamo all’intera città, ai colleghi di papà, a noi stesse. Uno tace quando ha qualcosa da nascondere». Un appello esplicito. Raccolto dalla Corte che per il 20 dicembre ha convocato anche alcuni colleghi di Bosio. Un modo per riaccendere i riflettori sul Civico che, stando alla moglie, lo stesso Bosio definiva «un concentrato di malaffare», meta ambita per le “villeggiature” dei padrini.
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