di: Sergio A. Dagradi - Il Giornale di Bioetica www.ilgiornaledibioetica.com (6 maggio 2010)
“L’etica della parola. La riflessione sul linguaggio di Paul Ricoeur” è l’ultimo libro di Giuseppe D’Acunto, docente di Storia della Linguistica all’Università “La Sapienza” di Roma. Centocinquanta pagine per le edizioni ETS di Pisa, nelle quali si delinea una sorta di presentazione analitica della riflessione di Paul Ricoeur (nella foto) attorno al linguaggio. L’autore organizza una puntuale trama di rimandi all’opera del pensatore francese - “Testimonianza, parola e rivelazione” - capace di ruotare attorno ai tre livelli d’analisi della parola che Ricoeur individua e presenta.
Questa trama permette al lettore di intendere, in modo compiuto, quella epistemologia dell’interpretazione che ha caratterizzato il percorso di pensiero dello stesso Ricoeur, evidenziandone il ruolo centrale giocato proprio dalla riflessione sul linguaggio. Come noto, infatti, accogliendo le critiche heideggeriane alla metafisica ipostatizzazione di una alterità originaria tra soggetto ed oggetto, postulata dal metodologismo delle scienze naturali, Ricoeur si rende parimenti conto della necessità di una integrazione tra ermeneutica ed epistemologia che vada oltre lo stesso Heidegger. La storicità dell’essere comprendente, come Heidegger l’ha proposta, è ritenuta insoddisfacente dal filosofo francese: occorre, a suo avviso, mostrare in quale senso la comprensione originaria dell’oggetto e la sua coappartenenza al soggetto siano modulati attraverso l’attività interpretativa e quindi attraverso il linguaggio. Occorre una analisi del linguaggio che sia da supporto alla comprensione dell’emergenza degli specifici campi disciplinari dell’interpretazione. In tal senso, credo, debba essere inquadrato il contributo di D’Acunto che prendendo avvio, come detto, dall’analisi dei tre livelli di analisi della parola entrata progressivamente nel merito del discorso in ultima istanza ontologico ed etico di Ricoeur.
I tre livelli ai quali si è fatto riferimento sono corrispondenti a quelli della linguistica strutturale, tesa ad analizzare la parola come unità di significato (mot), della fenomenologia della parola, in cui la parole assume il senso fondamentale di parola significativa, e della ontologia del discorso, nella quale la parole è sì parola significativa, ma connotata da una tonalità più marcatamente esistenziale. Il primo livello è quello oggetto del lavoro di analisi di Ferdinand de Saussure, che Ricoeur riconsidera in primo luogo alla luce della distinzione langue – parole, una distinzione che a suo parere neutralizza il ruolo di quelle che lo stesso Ricoeur chiama le trascendenze del significato e dei soggetti parlanti. La langue, come è pensata dallo strutturalismo di de Saussure (e ancor più dalle scuole linguistiche di Praga e di Copenhagen), divenendo la polarità decisiva nel determinare il terreno tanto sincronico che diacronico di ogni personale pratica linguistica (parole), oblierebbe il rimando concreto del linguaggio stesso tanto alla realtà (il trascendentale del significato, della referenza, di ogni comunicazione) quanto ai soggetti dell’atto comunicativo. È un venir meno della relazione del linguaggio con la realtà e, soprattutto, con il soggetto, centro come anzidetto focale di tutta l’analisi filosofica di Ricoeur: nell’interazione intersoggettiva a scomparire è proprio il soggetto. Nessuno parla, nessuno risponde: siamo parlati dalla langue. Va in tal senso smarrita quella che sempre Ricoeur chiama l’«intenzione di riconoscimento» che ogni comunicazione intersoggettiva implica, l’«intimità del dialogo». Per il filosofo francese si tratterebbe allora di attuare un mutamento radicale di metodologia nell’approccio al linguaggio e dove l’esecuzione – carica della densità dei soggetti parlanti e delle situazioni concrete – è posta in rapporto dialettico con le competenze in atto nello stesso atto comunicativo. È il messaggio, la parole, che deve secondo Ricoeur costituire il centro focale dell’analisi comprendente del fenomeno linguistico. Ecco la necessità di accedere ad un secondo livello di analisi, quello fenomenologico, di una fenomenologia del linguaggio che si assuma il compito di riunificare dialetticamente, come detto, “langue e parole”.
La teoria degli atti linguistici di Austin si presenterebbe, in questo nuovo contesto d’analisi, come una interessante alternativa – secondo Ricoeur – all’analisi della comunicazione strutturalista. La sua pragmatica linguistica permetterebbe di ridare spazio al ruolo anzitutto mediatore che il linguaggio avrebbe nel rapporto uomo-mondo, uomo-uomo, ma anche di ciascun uomo con se stesso. Nel costruirsi come mediazione, il linguaggio mostrerebbe al proprio interno l’articolarsi del concetto fenomenologico di intenzionalità, in particolare in relazione all’espressione del dire (il dire qualcosa) e al suo significato (il dire su qualcosa). È questa intenzionalità che rappresenta al contempo la trascendenza di ogni atto linguistico, in un gioco incessante tra espressione e significato, libertà del parlante e fedeltà alla realtà. Ed è proprio la fenomenologia che ha tematizzato per la prima volta l’attività intenzionale e significante del soggetto stesso, di un soggetto sempre concreto, che utilizza il linguaggio come mezzo significante che impronta di sé il vissuto umano. In questa prospettiva sarà pertanto la frase l’entità linguistica di riferimento, in quanto costitutiva di un avvenimento di linguaggio. La parola diventa funzione della frase, dell’espressione. Un’espressione attraverso la quale - riprendendo le osservazioni di Benveniste – si radica la presenza del soggetto, la sua emergenza e il suo riconoscimento in quanto tale. È attraverso e nel linguaggio che l’uomo si costituisce come soggetto da cui il suo discorso proviene e cui il suo discorso costantemente rimanda. Ma in questa pragmatica dell’atto linguistico non vi è soggetto senza interlocutore che ne costituisca un rispecchiamento: identità e alterità emergono nella pragmatica linguistica, individuando il terzo piano della “parole”, ossia quello “ontologico”.
In questo quadro si inserisce, come evidenzia opportunamente D’Acunto, la riflessione di Ricoeur sul simbolo, altro elemento di dialetticità del linguaggio: infatti il simbolo da un lato ci precede, ponendosi di fronte a noi come dono, ma dall’altro offre anche il terreno della nostra presenza, attraverso il nostro dire e attraverso il nostro pensare con il simbolo e, prima ancora, sul simbolo stesso. Il simbolo è il dono che “dà da pensare”, che sviluppa a partire da sé l’ermeneutica interpretante del soggetto stesso che lo riceve. Il libro si sofferma giustamente nel sottolineare come per Ricoeur sia la funzione di opacità di cui ogni simbolo è portatore, in quanto luogo sempre anche di un’assenza, che permette ad ogni interprete di portare il proprio contributo, di declinare il simbolo in modo nuovo e produttivo, permettendo di pensare di nuovo, aprendo ad un nuovo cominciamento del pensiero. In tal senso – e tornando ad una osservazione precedente – anche il simbolo viene a radicare il linguaggio, il pensiero e il logos sul piano della vita, ponendo una relazione inscindibile tra linguaggio e ontologia.
Una dimensione ontologica che riguarda la parola stessa nel suo diventare scrittura: il voler dire dell’enunciato, la parola come evento si fa propriamente senso, si obiettiva nel suo noema attraverso la scrittura, assumendo pertanto una ontologia diversa rispetto alla dimensione di evenienza dell’oralità, in funzione – anzitutto – di una diversa temporalità che la caratterizza. La scrittura oggettiva rende stabile l’evenienza-evanescenza della parola viva, producendo una distanziazione anche di questa dal suo autore. Inoltre apre il testo al processo interpretativo, ossia lo pone positivamente in una dimensione intersoggettiva e ulteriormente produttrice di senso.
Il lavoro di plasmazione del testo, secondo uno stile proprio del suo autore (e che pertanto indica anche la presenza, l’essere dell’autore stesso nell’opera) è lavoro di ristrutturazione del linguaggio che si offre al lettore come invito alla sua continuazione, quale materiale per nuove ristrutturazioni. Ogni testo è quindi già da sempre connesso con i testi che l’hanno preceduto e con i testi potenziali che lo seguiranno: è, potremmo dire, una stratificazione ipertestuale. In questa operazione il testo apre anche a una referenza di secondo grado rispetto a quella immediata della denotazione propria degli enunciati descrittivi: il testo poetico, proprio in funzione della sospensione della referenzialità immediata di primo livello (ostensiva), aprirebbe a un mondo, descriverebbe un mondo, lo farebbe sussistere in quanto tale in una dimensione di denotazione di secondo grado che tuttavia appare, paradossalmente, più originaria della prima, in quanto svelante il nostro legame ontologico con gli altri esseri, il essere-nel-mondo. Il testo è un progetto di un nuovo essere-nel-mondo. Il lavoro interpretativo del lettore si dispiegherebbe così come con divisione di questo nuovo essere nel mondo, nell’ottica di una sua ricezione, integrazione e rielaborazione da parte del lettore medesimo. La parola diviene così evento intersoggettivo del discorso e la funzione descrittiva dello stesso linguaggio sarebbe pensabile - secondo Ricoeur – solamente a partire dall’uso poetico del linguaggio stesso come uso configuratore di un mondo, della possibilità di un’apertura di un certo essere-nel-mondo.
D’Acunto rileva come sia proprio alla luce di questo dispositivo testuale che Ricoeur intende anche il messaggio cristiano: quest’ultimo si presenterebbe in tutta la sua portata e la pluralità produttiva delle sue valenze solamente se dischiude nel suo ricevente una nuova dimensione per il suo esistere (la fede come risposta all’appello del testo), solamente se diviene messaggio che nasce come ripresa e riarticolazione immaginifica di un testo passato, di un progetto di essere-nel-mondo precedente (l’Antico Testamento). La non risposta all’appello, il non incamminarsi nel lettore ad un lavoro di produzione di nuovo senso del messaggio che ha ricevuto fa decadere il contenuto del testo in oggetto: ecco l’idolatria.
Il senso, in generale, è allora interpretabile anche – e secondo la prospettiva offerta da Ricoeur – al pari di un evento e un evento che, per quanto detto, risulta al contempo dispositivo istitutivo dell’identità del soggetto. Nel creare testo l’identità si delinea in una dimensione narrativa: il sé non precede, ma è l’evento dell’intramazione e dell’assunzione delle responsabilità anche e soprattutto morali che questo compito implica. Come l’autore chiarisce nell’ultima parte del volume, è nel fenomeno della promessa che emergono paradigmaticamente queste responsabilità. L’ontologico dell’identità umana non è dissociabile dal piano morale: il mantenere la parola è un conservarsi nell’identità di colui che ha promesso e un essere riconosciuti dagli altri attraverso il mantenimento della dimensione fiduciaria propria di ogni dire, propria della istituzione linguistica. Questo “éthos” della parola può dunque diventare anche l’orizzonte dell’apertura all’altro, del dialogo con lo straniero. Il paradigma della traduzione diviene paradigma della relazione produttiva e positiva con l’altro, dell’integrazione reciproca dei soggetti – stranieri l’uno all’altro.
“L’etica della parola. La riflessione sul linguaggio di Paul Ricoeur” è l’ultimo libro di Giuseppe D’Acunto, docente di Storia della Linguistica all’Università “La Sapienza” di Roma. Centocinquanta pagine per le edizioni ETS di Pisa, nelle quali si delinea una sorta di presentazione analitica della riflessione di Paul Ricoeur (nella foto) attorno al linguaggio. L’autore organizza una puntuale trama di rimandi all’opera del pensatore francese - “Testimonianza, parola e rivelazione” - capace di ruotare attorno ai tre livelli d’analisi della parola che Ricoeur individua e presenta.
Questa trama permette al lettore di intendere, in modo compiuto, quella epistemologia dell’interpretazione che ha caratterizzato il percorso di pensiero dello stesso Ricoeur, evidenziandone il ruolo centrale giocato proprio dalla riflessione sul linguaggio. Come noto, infatti, accogliendo le critiche heideggeriane alla metafisica ipostatizzazione di una alterità originaria tra soggetto ed oggetto, postulata dal metodologismo delle scienze naturali, Ricoeur si rende parimenti conto della necessità di una integrazione tra ermeneutica ed epistemologia che vada oltre lo stesso Heidegger. La storicità dell’essere comprendente, come Heidegger l’ha proposta, è ritenuta insoddisfacente dal filosofo francese: occorre, a suo avviso, mostrare in quale senso la comprensione originaria dell’oggetto e la sua coappartenenza al soggetto siano modulati attraverso l’attività interpretativa e quindi attraverso il linguaggio. Occorre una analisi del linguaggio che sia da supporto alla comprensione dell’emergenza degli specifici campi disciplinari dell’interpretazione. In tal senso, credo, debba essere inquadrato il contributo di D’Acunto che prendendo avvio, come detto, dall’analisi dei tre livelli di analisi della parola entrata progressivamente nel merito del discorso in ultima istanza ontologico ed etico di Ricoeur.
I tre livelli ai quali si è fatto riferimento sono corrispondenti a quelli della linguistica strutturale, tesa ad analizzare la parola come unità di significato (mot), della fenomenologia della parola, in cui la parole assume il senso fondamentale di parola significativa, e della ontologia del discorso, nella quale la parole è sì parola significativa, ma connotata da una tonalità più marcatamente esistenziale. Il primo livello è quello oggetto del lavoro di analisi di Ferdinand de Saussure, che Ricoeur riconsidera in primo luogo alla luce della distinzione langue – parole, una distinzione che a suo parere neutralizza il ruolo di quelle che lo stesso Ricoeur chiama le trascendenze del significato e dei soggetti parlanti. La langue, come è pensata dallo strutturalismo di de Saussure (e ancor più dalle scuole linguistiche di Praga e di Copenhagen), divenendo la polarità decisiva nel determinare il terreno tanto sincronico che diacronico di ogni personale pratica linguistica (parole), oblierebbe il rimando concreto del linguaggio stesso tanto alla realtà (il trascendentale del significato, della referenza, di ogni comunicazione) quanto ai soggetti dell’atto comunicativo. È un venir meno della relazione del linguaggio con la realtà e, soprattutto, con il soggetto, centro come anzidetto focale di tutta l’analisi filosofica di Ricoeur: nell’interazione intersoggettiva a scomparire è proprio il soggetto. Nessuno parla, nessuno risponde: siamo parlati dalla langue. Va in tal senso smarrita quella che sempre Ricoeur chiama l’«intenzione di riconoscimento» che ogni comunicazione intersoggettiva implica, l’«intimità del dialogo». Per il filosofo francese si tratterebbe allora di attuare un mutamento radicale di metodologia nell’approccio al linguaggio e dove l’esecuzione – carica della densità dei soggetti parlanti e delle situazioni concrete – è posta in rapporto dialettico con le competenze in atto nello stesso atto comunicativo. È il messaggio, la parole, che deve secondo Ricoeur costituire il centro focale dell’analisi comprendente del fenomeno linguistico. Ecco la necessità di accedere ad un secondo livello di analisi, quello fenomenologico, di una fenomenologia del linguaggio che si assuma il compito di riunificare dialetticamente, come detto, “langue e parole”.
La teoria degli atti linguistici di Austin si presenterebbe, in questo nuovo contesto d’analisi, come una interessante alternativa – secondo Ricoeur – all’analisi della comunicazione strutturalista. La sua pragmatica linguistica permetterebbe di ridare spazio al ruolo anzitutto mediatore che il linguaggio avrebbe nel rapporto uomo-mondo, uomo-uomo, ma anche di ciascun uomo con se stesso. Nel costruirsi come mediazione, il linguaggio mostrerebbe al proprio interno l’articolarsi del concetto fenomenologico di intenzionalità, in particolare in relazione all’espressione del dire (il dire qualcosa) e al suo significato (il dire su qualcosa). È questa intenzionalità che rappresenta al contempo la trascendenza di ogni atto linguistico, in un gioco incessante tra espressione e significato, libertà del parlante e fedeltà alla realtà. Ed è proprio la fenomenologia che ha tematizzato per la prima volta l’attività intenzionale e significante del soggetto stesso, di un soggetto sempre concreto, che utilizza il linguaggio come mezzo significante che impronta di sé il vissuto umano. In questa prospettiva sarà pertanto la frase l’entità linguistica di riferimento, in quanto costitutiva di un avvenimento di linguaggio. La parola diventa funzione della frase, dell’espressione. Un’espressione attraverso la quale - riprendendo le osservazioni di Benveniste – si radica la presenza del soggetto, la sua emergenza e il suo riconoscimento in quanto tale. È attraverso e nel linguaggio che l’uomo si costituisce come soggetto da cui il suo discorso proviene e cui il suo discorso costantemente rimanda. Ma in questa pragmatica dell’atto linguistico non vi è soggetto senza interlocutore che ne costituisca un rispecchiamento: identità e alterità emergono nella pragmatica linguistica, individuando il terzo piano della “parole”, ossia quello “ontologico”.
In questo quadro si inserisce, come evidenzia opportunamente D’Acunto, la riflessione di Ricoeur sul simbolo, altro elemento di dialetticità del linguaggio: infatti il simbolo da un lato ci precede, ponendosi di fronte a noi come dono, ma dall’altro offre anche il terreno della nostra presenza, attraverso il nostro dire e attraverso il nostro pensare con il simbolo e, prima ancora, sul simbolo stesso. Il simbolo è il dono che “dà da pensare”, che sviluppa a partire da sé l’ermeneutica interpretante del soggetto stesso che lo riceve. Il libro si sofferma giustamente nel sottolineare come per Ricoeur sia la funzione di opacità di cui ogni simbolo è portatore, in quanto luogo sempre anche di un’assenza, che permette ad ogni interprete di portare il proprio contributo, di declinare il simbolo in modo nuovo e produttivo, permettendo di pensare di nuovo, aprendo ad un nuovo cominciamento del pensiero. In tal senso – e tornando ad una osservazione precedente – anche il simbolo viene a radicare il linguaggio, il pensiero e il logos sul piano della vita, ponendo una relazione inscindibile tra linguaggio e ontologia.
Una dimensione ontologica che riguarda la parola stessa nel suo diventare scrittura: il voler dire dell’enunciato, la parola come evento si fa propriamente senso, si obiettiva nel suo noema attraverso la scrittura, assumendo pertanto una ontologia diversa rispetto alla dimensione di evenienza dell’oralità, in funzione – anzitutto – di una diversa temporalità che la caratterizza. La scrittura oggettiva rende stabile l’evenienza-evanescenza della parola viva, producendo una distanziazione anche di questa dal suo autore. Inoltre apre il testo al processo interpretativo, ossia lo pone positivamente in una dimensione intersoggettiva e ulteriormente produttrice di senso.
Il lavoro di plasmazione del testo, secondo uno stile proprio del suo autore (e che pertanto indica anche la presenza, l’essere dell’autore stesso nell’opera) è lavoro di ristrutturazione del linguaggio che si offre al lettore come invito alla sua continuazione, quale materiale per nuove ristrutturazioni. Ogni testo è quindi già da sempre connesso con i testi che l’hanno preceduto e con i testi potenziali che lo seguiranno: è, potremmo dire, una stratificazione ipertestuale. In questa operazione il testo apre anche a una referenza di secondo grado rispetto a quella immediata della denotazione propria degli enunciati descrittivi: il testo poetico, proprio in funzione della sospensione della referenzialità immediata di primo livello (ostensiva), aprirebbe a un mondo, descriverebbe un mondo, lo farebbe sussistere in quanto tale in una dimensione di denotazione di secondo grado che tuttavia appare, paradossalmente, più originaria della prima, in quanto svelante il nostro legame ontologico con gli altri esseri, il essere-nel-mondo. Il testo è un progetto di un nuovo essere-nel-mondo. Il lavoro interpretativo del lettore si dispiegherebbe così come con divisione di questo nuovo essere nel mondo, nell’ottica di una sua ricezione, integrazione e rielaborazione da parte del lettore medesimo. La parola diviene così evento intersoggettivo del discorso e la funzione descrittiva dello stesso linguaggio sarebbe pensabile - secondo Ricoeur – solamente a partire dall’uso poetico del linguaggio stesso come uso configuratore di un mondo, della possibilità di un’apertura di un certo essere-nel-mondo.
D’Acunto rileva come sia proprio alla luce di questo dispositivo testuale che Ricoeur intende anche il messaggio cristiano: quest’ultimo si presenterebbe in tutta la sua portata e la pluralità produttiva delle sue valenze solamente se dischiude nel suo ricevente una nuova dimensione per il suo esistere (la fede come risposta all’appello del testo), solamente se diviene messaggio che nasce come ripresa e riarticolazione immaginifica di un testo passato, di un progetto di essere-nel-mondo precedente (l’Antico Testamento). La non risposta all’appello, il non incamminarsi nel lettore ad un lavoro di produzione di nuovo senso del messaggio che ha ricevuto fa decadere il contenuto del testo in oggetto: ecco l’idolatria.
Il senso, in generale, è allora interpretabile anche – e secondo la prospettiva offerta da Ricoeur – al pari di un evento e un evento che, per quanto detto, risulta al contempo dispositivo istitutivo dell’identità del soggetto. Nel creare testo l’identità si delinea in una dimensione narrativa: il sé non precede, ma è l’evento dell’intramazione e dell’assunzione delle responsabilità anche e soprattutto morali che questo compito implica. Come l’autore chiarisce nell’ultima parte del volume, è nel fenomeno della promessa che emergono paradigmaticamente queste responsabilità. L’ontologico dell’identità umana non è dissociabile dal piano morale: il mantenere la parola è un conservarsi nell’identità di colui che ha promesso e un essere riconosciuti dagli altri attraverso il mantenimento della dimensione fiduciaria propria di ogni dire, propria della istituzione linguistica. Questo “éthos” della parola può dunque diventare anche l’orizzonte dell’apertura all’altro, del dialogo con lo straniero. Il paradigma della traduzione diviene paradigma della relazione produttiva e positiva con l’altro, dell’integrazione reciproca dei soggetti – stranieri l’uno all’altro.
Nessun commento:
Posta un commento