di di Giulia Pompili - Il Foglio (3 maggio 2010)
L'esperimento in Norvegia
La prigione di Halden e il reinserimento dei criminali nella società
Può esistere un carcere “a misura d’uomo”? Capace di creare un percorso riabilitativo, e non solo punitivo? A quanto pare sì. Lo hanno inaugurato ad aprile in Norvegia, dopo dieci anni di lavoro e oltre duecentocinquantamila dollari. Oggi il Time analizza il sistema della prigione di Halden, trenta ettari nel sud est della Norvegia, dove lo spazio per i detenuti è costruito in modo da sembrare il più possibile vicino alla quotidianità di una persona libera. Servizi come uno studio di registrazione, dei percorsi di jogging e di una casa indipendente dove i prigionieri possono ospitare le loro famiglie per visite prolungate, il tutto a disposizione di 248 detenuti (Halden è la seconda prigione della Norvegia, dopo quella di Oslo). Un esperimento sensazionale, se visto alla luce dei dati italiani: nelle carceri della penisola, attualmente gli obbligati sono oltre 67 mila, con ovvi problemi di gestione degli istituti di pena, e dal 2010 si sono registrati già ventidue suicidi. Qualche mese fa il Premier, Silvio Berlusconi, aveva lanciato l'ipotesi dei domiciliari per le pene brevi, ma una riforma sistematica tarda ancora a venire.
Il sito internet della “cittadella” norvegese, invece, è pieno di immagini e fotografie di detenuti sorridenti, offre materiale dettagliato sulle modalità di ingresso per le visite, proprio come all’aeroporto, un modulo on line di richieste, e anche un’area “lavora con noi”. Tutto sembra fatto per non far perdere la dimensione dell'"esterno" né al detenuto, né ai suoi familiari.
Are Hoidal, il responsabile della prigione, minimizza: “Nel sistema carcerario norvegese, c'è molta attenzione ai diritti umani e al rispetto. Non c’è niente di inusuale in tutto questo”. Il sistema di recupero norvegese è basato sulla fiducia, secondo un modello per cui i metodi repressive non funzionano e i prigionieri trattati umanamente incrementerebbero le loro possibilità di reinserimento nella società. Tutta la struttura sembra riproporre questo sistema: “La cosa più importante è che il carcere appaia molto simile al mondo esterno”, afferma Hans Henrik Hoilund, uno degli architetti.
E così, il muro di cinta esiste ma è coperto dagli alberi, e non esistono grate e ferro. Ogni cella, ha a disposizione tv e frigorifero, compresi soggiorno e cucina in condivisione, per incrementare l’autonomia. Le guardie carcerarie non portano con loro armi, simboli di aggressività che aumentano la distanza umana, sono per la maggior parte donne e mangiano insieme ai detenuti. All'interno della struttura, sono presenti corsi di formazione professionale che facilitano il reintegro in società, come la scuola di cucina e quella di falegnameria, oltre a un liceo, squadre agonistiche di vari sport e un coro. Qualcosa che assomiglia molto più a una comunità di recupero che a un carcere, e infatti, entro i due anni dalla loro liberazione, in Norvegia soltanto il venti per cento dei detenuti torna dentro (in Inghilterra e Stati Uniti, la cifra si aggira tra il 50 e il 60 per cento, anche se in confronto, hanno un livello di criminalità tra i più alti del mondo).
L'esperimento in Norvegia
La prigione di Halden e il reinserimento dei criminali nella società
Può esistere un carcere “a misura d’uomo”? Capace di creare un percorso riabilitativo, e non solo punitivo? A quanto pare sì. Lo hanno inaugurato ad aprile in Norvegia, dopo dieci anni di lavoro e oltre duecentocinquantamila dollari. Oggi il Time analizza il sistema della prigione di Halden, trenta ettari nel sud est della Norvegia, dove lo spazio per i detenuti è costruito in modo da sembrare il più possibile vicino alla quotidianità di una persona libera. Servizi come uno studio di registrazione, dei percorsi di jogging e di una casa indipendente dove i prigionieri possono ospitare le loro famiglie per visite prolungate, il tutto a disposizione di 248 detenuti (Halden è la seconda prigione della Norvegia, dopo quella di Oslo). Un esperimento sensazionale, se visto alla luce dei dati italiani: nelle carceri della penisola, attualmente gli obbligati sono oltre 67 mila, con ovvi problemi di gestione degli istituti di pena, e dal 2010 si sono registrati già ventidue suicidi. Qualche mese fa il Premier, Silvio Berlusconi, aveva lanciato l'ipotesi dei domiciliari per le pene brevi, ma una riforma sistematica tarda ancora a venire.
Il sito internet della “cittadella” norvegese, invece, è pieno di immagini e fotografie di detenuti sorridenti, offre materiale dettagliato sulle modalità di ingresso per le visite, proprio come all’aeroporto, un modulo on line di richieste, e anche un’area “lavora con noi”. Tutto sembra fatto per non far perdere la dimensione dell'"esterno" né al detenuto, né ai suoi familiari.
Are Hoidal, il responsabile della prigione, minimizza: “Nel sistema carcerario norvegese, c'è molta attenzione ai diritti umani e al rispetto. Non c’è niente di inusuale in tutto questo”. Il sistema di recupero norvegese è basato sulla fiducia, secondo un modello per cui i metodi repressive non funzionano e i prigionieri trattati umanamente incrementerebbero le loro possibilità di reinserimento nella società. Tutta la struttura sembra riproporre questo sistema: “La cosa più importante è che il carcere appaia molto simile al mondo esterno”, afferma Hans Henrik Hoilund, uno degli architetti.
E così, il muro di cinta esiste ma è coperto dagli alberi, e non esistono grate e ferro. Ogni cella, ha a disposizione tv e frigorifero, compresi soggiorno e cucina in condivisione, per incrementare l’autonomia. Le guardie carcerarie non portano con loro armi, simboli di aggressività che aumentano la distanza umana, sono per la maggior parte donne e mangiano insieme ai detenuti. All'interno della struttura, sono presenti corsi di formazione professionale che facilitano il reintegro in società, come la scuola di cucina e quella di falegnameria, oltre a un liceo, squadre agonistiche di vari sport e un coro. Qualcosa che assomiglia molto più a una comunità di recupero che a un carcere, e infatti, entro i due anni dalla loro liberazione, in Norvegia soltanto il venti per cento dei detenuti torna dentro (in Inghilterra e Stati Uniti, la cifra si aggira tra il 50 e il 60 per cento, anche se in confronto, hanno un livello di criminalità tra i più alti del mondo).
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