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venerdì 7 maggio 2010

L'unità d'Italia? Un fatto anche cristiano

di: Luca Marcolivio - L'Ottimista (07 maggio 2010)

La cultura cattolica contribuì alla coesione sociale e alla crescita del Paese, supplendo ai limiti delle élite laico-risorgimentali

L'amore per l'Italia non è in contrasto con la fede cattolica. A meno di un anno al 150° anniversario dell'unità del Paese, giova ricordare il ruolo esercitato dalla cristianità nella storia italiana. Lo ha ribadito il presidente della CEI, cardinal Angelo Bagnasco, in occasione del convegno L'unità nazionale: memoria condivisa, futuro da condividere. Non solo la ricorrenza imminente dovrebbe evitare di andare a braccetto con sterili polemiche tra unitaristi e federalisti, 'legittimisti' e filo-risorgimentali. È anche importante “far riemergere il senso positivo di un essere italiani”, come ha ricordato Bagnasco, riconciliando, sempre per usare le parole del porporato, la “cultura alta” e la “cultura diffusa” (ovvero popolare) che, al momento dell'unificazione, erano lontane anni luce.


Ancora più significativa, per molti versi, l'osservazione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che, da statista laico, ha ricordato “il grande contributo che la Chiesa e i cattolici hanno dato, spesso pagandone alti prezzi, alla storia d’Italia e alla crescita civile del Paese”. Il Capo dello Stato ha citato grandi cattolici come Sturzo, De Gasperi o Bachelet, il cui ruolo nella politica e nelle istituzioni è stato fortemente determinante, specie in un periodo come il secondo dopoguerra, durante il quale, i cattolici, pur 'nuovi' nel panorama politico italiano, hanno fornito un contributo incalcolabile nella ricostruzione post-bellica e nel miracolo economico.
Le riflessioni del capo dei vescovi e del Presidente della Repubblica, tuttavia, possono assumere un profilo davvero alto, solo se analizzate alla luce della vera storia del nostro Paese. Non solo alla metà del XIX secolo i tempi erano più che maturi per l'avvio di un processo di unificazione ma il mondo cattolico ne era fortemente consapevole, al punto che a scrivere un opera come Del primato morale e civile degli italiani fu un uomo di chiesa come l'abate Vincenzo Gioberti (1801-1852). Per non fare menzione dell'altro grande abate dello stesso secolo, quell'Antonio Rosmini (1797-1855) secondo il quale nell'Italia unita e federale “tutto doveva essere funzionale alla persona e alla famiglia, che venivano prima della stessa società e naturalmente dello Stato, in un intreccio di competenze basato sulla sussidiarietà” (1). L'unificazione d'Italia, invece, fu portata a termine da un'élite meschina, provinciale e anticattolica, costituitasi introno ai Savoia che, oltre ad aver versato sul terreno italico il sangue di numerosi nuovi martiri, appiattì notevolmente le differenze esistenti tra gli stati preunitari e mortificò le tradizioni plurisecolari che avevano fatto grande la nostra cultura popolare. È proprio a Gioberti che ha sempre guardato con attenzione uno storico cattolico come Augusto Del Noce (1910-1989) che individuava l'essenza più genuina del Risorgimento, non nella sua componente egemone radical-massonica bensì nella resurrezione dello spirito nazional-popolare, dell'anima profonda del nostro paese, della sua origine religiosa, giobertiana per l'appunto, da cui sarebbe dovuta scaturire una genuina e laicissima “religione civile”.
Non è dunque peregrino affermare che l'identità italiana è stata resa possibile dall'eredità ideale tra la Roma imperiale e quella papale, mentre movimenti popolari 'reazionari' come le Insorgenze non sono affatto da considerarsi anti-italiani. Al contrario alcuni di essi esprimevano un sentimento anti-Savoia e non antiunitario e “segnarono una prima manifestazione di un idem sentire tra gli italiani” (2).
Si accennava pocanzi alla sussidiarietà: sarebbe in tal senso ingeneroso non ricordare le decine di santi e beati vissuti a cavallo dell'unificazione. Uomini come Giuseppe Cottolengo, Francesco Faà di Bruno o Giovanni Bosco hanno giocato un ruolo non solamente spirituale, impegnandosi in prima linea per la coesione sociale, l'emancipazione delle classi più disagiate, l'alfabetizzazione e favorendo un processo di maturazione della nazione che il fragile ed inefficiente stato sabaudo non avrebbe mai potuto garantire.
Se queste sono le premesse, ci sono tutte le carte in regola perché il 150° anniversario dell'unità d'Italia, ben lungi dalla retorica e dagli isterismi ideologici d'ogni sorta, diventi l'occasione per un dibattito vero sulla nostra reale identità nazionale.

(1) Giuseppe Brienza, Unità senza identità. Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli stati italiani, Solfanelli, 2009, p.20
(2) Ibidem, p.7

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