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martedì 7 settembre 2010

Necessità di relazione tra bellezza e arte?

di Rodolfo Papa, lunedì, 6 settembre 2010 (ZENIT.org)

Le teorie estetiche contemporanee propongono definizioni dell’arte estremamente fluide, addirittura liquide, apparentemente elastiche ed attraversabili, spesso però si rivelano poi estremamente rigide, con confini invalicabili. Uno di questi confini, surrettiziamente elevato, riguarda la perentoria separazione di arte e bellezza, un altro confina al di fuori dell’arte ogni riferimento alla trascendenza. Questa impostazione pone non pochi problemi teoretici per rintracciare una definizione del concetto di arte.
Vogliamo affrontare la questione del rapporto tra arte e bellezza, tra arte e trascendenza, da un punto di vista particolare, ovvero riflettendo sul Magistero della Chiesa. In esso troviamo non solo indicazioni che hanno valore per i credenti, ma anche la fondazione seria e rigorosa di un discorso che si propone come vero per ogni uomo.
Nella esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, Benedetto XVI riflettendo sullo spirito della liturgia, pone in essere una riflessione sull’arte al servizio della celebrazione, fondata sul legame profondo tra “bellezza e liturgia”; in modo particolare leggiamo: «Lo stesso principio vale per tutta l'arte sacra in genere, specialmente la pittura e la scultura, nelle quali l'iconografia religiosa deve essere orientata alla mistagogia sacramentale. Un'approfondita conoscenza delle forme che l'arte sacra ha saputo produrre lungo i secoli può essere di grande aiuto per coloro che, di fronte a architetti e artisti, hanno la responsabilità della committenza di opere artistiche legate all'azione liturgica. Perciò è indispensabile che nella formazione dei seminaristi e dei sacerdoti sia inclusa, come disciplina importante, la storia dell'arte con speciale riferimento agli edifici di culto alla luce delle norme liturgiche. In definitiva, è necessario che in tutto quello che riguarda l'Eucaristia vi sia gusto per la bellezza. Rispetto e cura dovranno aversi anche per i paramenti, gli arredi, i vasi sacri, affinché, collegati in modo organico e ordinato tra loro, alimentino lo stupore per il mistero di Dio, manifestino l'unità della fede e rafforzino la devozione» (n. 41, corsivo aggiunto).
L’arte sacra, al servizio della liturgia, è finalizzata alla “mistagogia sacramentale”, e deve essere impregnata di “gusto per la bellezza”. Sospendiamo per ora, rimandandone l’analisi a un altro articolo, l’affermazione che è “indispensabile” che seminaristi e sacerdoti conoscano la storia dell’arte, per formare il gusto alla bellezza.
Soffermiamoci, invece, sulla relazione intima e inscindibile di arte sacra e bellezza, fondata nel cuore della stessa liturgia; nello stesso documento ancora leggiamo: «La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. Il memoriale del sacrificio redentore porta in se stesso i tratti di quella bellezza di Gesù di cui Pietro, Giacomo e Giovanni ci hanno dato testimonianza, quando il Maestro, in cammino verso Gerusalemme, volle trasfigurarsi davanti a loro (cfr Mc 9,2). La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell'azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria» (n. 31, corsivo aggiunto).
La bellezza, in quanto attributo di Dio, è elemento costitutivo della liturgia e dunque dell’arte sacra. Si tratta di una implicazione preziosa, che àncora la bellezza dell’arte sacra in Dio.
Anche in una riflessione esterna all’ambito liturgico e sacramentale, una seria considerazione di cosa sia l’arte mostra come la bellezza ne sia comunque attributo costitutivo, perché ogni artista opera a immagine di Dio creatore, e perché il bello è una proprietà trascendentale dell’essere, un attributo cioè che tutto ciò che è possiede, proprio perché partecipa dell’essere di Dio, in quanto creato.
Questo percorso è tracciato da Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti del 1999, rivolta universalmente a tutti gli artisti, definiti “geniali costruttori di bellezza”. In questo modo Giovanni Paolo II indica all’artista il suo proprio campo d’azione, sottolinea il cuore della sua stessa identità. Non si tratta di una considerazione puramente descrittiva o la constatazione di un dato di fatto, ma è quasi l’enunciazione di un principio, l’esortazione a un rinnovato connubio tra arte e bellezza.
La definizione “geniali costruttori di bellezza” è complessa e profonda in ogni suo termine. Il sostantivo “costruttori”, rimanda alla classica definizione di ars come “recta ratio factibilium”, cioè a un ambito di produzione: l’artista è un artefice. Viene così richiamato un ambito entrato purtroppo in disuso in molte teorie dell’arte, sprezzanti nei confronti della reale produzione artistica. L’aggettivo “geniale” dialoga con tutta la storia della riflessione estetica, sottolineando nel possesso del “genio” la peculiarità dell’arte rispetto all’artigianato e alle altre produzioni tecniche. Ma è il complemento della “bellezza” il vero cuore della definizione: la bellezza è l’oggetto e la finalità dell’arte stessa. Questa sottolineatura, che si pone in continuità con una multimillenaria tradizione, è audacemente contrastante con le tante contemporanee estetiche del brutto che teorizzano la bruttezza come vero campo artistico o ancor peggio propongono una assoluta indifferenza verso il bello e il brutto. Giovanni Paolo II ricolloca l’arte nel territorio della bellezza, sottoposta alle regole del fare, nel riconoscimento di quel dono particolare che usualmente si chiama “genio” e che, nel contesto della Lettera agli artisti stessa, si svela come un talento naturale e un dono dello Spirito Santo.
L’imprescindibilità della bellezza in tutte le arti – pittura, scultura, architettura etc. – implica necessariamente un ripensamento della stessa nozione di bellezza, che, come mostreremo in altri prossimi articoli, trova la propria migliore chiarificazione nella tradizione aristotelico-tomista medievale e rinascimentale.

I media non hanno compreso il Messaggio di Benedetto XVI ai giovani

Lo presentano come se il Papa non capisse i loro problemi lavorativi
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 6 settembre 2010 (ZENIT.org).- I mezzi di comunicazione hanno “trascurato o frainteso” il Messaggio che Benedetto XVI ha inviato ai giovani, motivo per il quale il direttore del quotidiano vaticano “L'Osservatore Romano” propone in un editoriale di prima pagina di leggere questo documento di “sapienza”.
Giovanni Maria Vian fa riferimento agli articoli pubblicati tra il 3 e il 5 settembre sul Messaggio papale per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, che si celebrerà a Madrid nell'agosto 2011.
Molti hanno messo in bocca al Papa parole che non ha mai scritto.
Secondo alcuni titoli, il Vescovo di Roma avrebbe detto ai giovani che “Dio sta prima del posto fisso”, quasi a volerlo presentare come una persona alla quale importa poco della vita reale dei giovani, e men che meno delle loro difficoltà lavorative.
Questa stessa constatazione è stata espressa dal direttore del quotidiano “Avvenire”, Marco Tarquinio, che ha confessato: “Apriamo i quotidiani e restiamo storditi. Il messaggio del Papa viene spacciato come un invito alla precarietà”.
Il Pontefice parla invece del “lavoro come problema grande e pressante”, un dramma che, come denuncia il direttore di “Avvenire”, nelle cronache “scompare”.
Tarquinio si rivolge ai giornalisti per chiedere rispetto per i giovani e per ciò che il Papa ha scritto ed esorta: “la comprensione del testo, colleghi”.
Il Papa, come spiega il direttore de “L'Osservatore Romano”, questa domenica, in occasione dell'Angelus, ha presentato personalmente questo testo, una cosa poco abituale e che permette di comprendere l'importanza che gli attribuisce.
“Un testo finora trascurato o frainteso dai media - agenzie, televisioni, radio, giornali - e che invece presenta molti segni di quella sapienza che Benedetto XVI ha definito caratteristica soprattutto dell'insegnamento papale e descritto come combinazione di 'fede e vita, verità e realtà concreta'”, indica Giovanni Maria Vian.
“Così, in una cultura 'indecisa riguardo ai valori di fondo' il Papa ha di nuovo presentato come risolutivo l'incontro con Gesù sostenuto dalla fede della Chiesa”, ricorda.
“Non ha senso 'pretendere di eliminare Dio per far vivere l'uomo'”, spiega Vian sintetizzando il Messaggio papale, che definisce un “testo appassionato e fitto di testimonianze personali: dal ricordo della giornata di Sydney a quello lontano di una giovinezza asfissiata dalla dittatura nazista e desiderosa di superare la 'normalità della vita borghese nell'incontro con Cristo'”.
“Quasi una lettera scritta con la passione inesauribile di una vita. E con la sapienza di chi davvero ha incontrato Gesù”, conclude.
Per scoprire la “sapienza” di questo Messaggio, come riconoscono ad ogni modo i direttori dei due quotidiani cattolici, bisogna leggerlo.