La Missione è quella di creare un'associazione tra la Comunicazione e la Cultura. Spesso questi due ambiti non si incontrano (il comunicatore non fa vera cultura e l'accademico non sa comunicare in modo efficace). Noi vorremmo far incrociare i due binari per portarli a formarne uno unico.

Vorremmo stimolare l'aspetto critico del fruitore, per comunicare cultura e per acculturare la comunicazione.

Questo Blog vuol essere un punto di riferimento per articoli d'informazione giornalistica-scientifico-culturale-economica.

Qui potrete trovare ogni tipo d'informazione e saremo lieti di stimolare un sano e doveroso dibattito per ogni singolo articolo, con il fine d'incrociare nel massimo rispetto di pareri ed opinioni diversi tra loro, per giungere così ad una proposta d'incontro tra i molteplici aspetti di una società multiculturale

giovedì 24 febbraio 2011

BIOTESTAMENTO: GAMBINO, FALSO CHE DDL IMPONGA ALIMENTAZIONE FORZATA

di: Alberto Gambino - ASCA


Roma, 23 feb - L'appello di Saviano, Rodota' e Zagrebelski e' ''la consacrazione di un ruolo che al diritto mai era stato assegnato: essere garante della volonta' individuale, qualunque essa sia''. Lo afferma nell'editoriale di oggi su Sussidiario.net (http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2011/2/23/J-ACCUSE-I-tre-sofismi-di-Rodota-e-del-partito-dell-eutanasia-/152229/) il giurista Alberto Gambino, ordinario di diritto civile e direttore del dipartimento di scienze umane dell'Universita' Europea di Roma.

   ''Il caso della volonta'-liberta' di determinare scelte di fine vita non ha attualmente nel nostro ordinamento la portata di 'pretesa giuridica' - commenta il prof. Gambino - ma cozza contro disposizioni di legge a tutela della vita umana, con la conseguenza che se qualcuno oggi ponesse fine ad un'esistenza umana per assecondare il volere del malato incorrerebbe nella commissione di reati come l'omicidio del consenziente o il suicidio assistito''.

   ''Non esiste dunque allo stato della legislazione italiana un diritto assoluto all'autodeterminazione - prosegue il giurista - che percio' non puo' ritenersi prevaricato da un ddl in via di approvazione''.

   ''Proprio con riferimento al rifiuto di cura - aggiunge il Gambino - la giurisprudenza di legittimita' italiana non e'

rappresentata solo dallo sporadico caso Englaro, ma, in maniera piu' robusta, afferma che la validita' di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario e' esclusa in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso'' e un ''ddl che si instrada su tale solco non puo' dunque definirsi in contraddizione con il dettato costituzionale, essendo piuttosto in piena armonia con quanto il sistema giuridico italiano gia' indica''.

   ''Non e' vero - spiega ancora il giurista - che il ddl imponga autoritariamente l'obbligo all'alimentazione e alla idratazione forzate in spregio all'art. 32 della Costituzione, infatti, e' oggi del tutto legittimo, anzi doveroso, in caso d'urgenza attivare protocolli che prevedono il sostentamento parenterale''.

   ''Si tratta ora di riconsegnare al Parlamento la prerogativa costituzionale di disciplinare una questione di forte impatto sociale, come le scelte di fine vita - conclude il prof. Gambino - disinnescando l'incedere di altre possibili decisioni giurisprudenziali di stampo creativo''.

mercoledì 23 febbraio 2011

Stati generali, Berlusconi: esemplare percorso di Alemanno sul futuro

di: Il Messaggero

Corteo contro l'iniziativa: "No al bunga bunga del cemento". Uova contro i blindati dei carabinieri. Marcegaglia arriva tardi.


ROMA - Seconda giornata degli “Stati generali” per programmare lo sviluppo di Roma. Seconda giornata iniziata con lo strascico delle polemiche di ieri mentre al Palazzo dei Congressi dell’Euro è arrivato il premier Silvio Berlusconi.

Berlusconi: esemplare percorso di Alemanno. «Il percorso ideato dal sindaco Alemanno per il futuro di Roma è esemplare». Lo ha detto il presidente del consiglio Silvio Berlusconoi parlando agli Stati Generali di Roma Capitale. Berlusconi ha voluto poi ringraziare personalmente Antonio Marzano per il suo «lavoro nella Commissione che ha dato avvio al piano strategico di Roma».

L'immancabile battuta: Emma "bella tusa". «Ecco la mia presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Tributiamole un bell'applauso. È quella che noi, a Milano, definiamo una "bella tusa"». Lo ha detto il premier Silvio Berlusconi nel porgere un saluto al presidente di Confindustria che sarebbe dovuta intervenire prima di lui sul palco ma che è arrivata in ritardo al palacongressi.

«Il Piano strategico di Roma capitale costituisce un potente acceleratore per lo sviluppo che valorizzerà nel mondo l'immagine della città, attirerà investimenti e realizzerà una vasta opera di riqualificazione ambientale». Ha aggiunto Berlusconi. I progetti contenuti nel Piano genereranno «ricadure positive» in termini di «innovazione tecnologica», «ricerca», «occupazione». «Roma - ha aggiunto il premier - sarà una calamita per gli investimenti dei vari Paesi del Mediterraneo». Secondo Berlusconi, inoltre, gli Stati generali «sono un'occasione preziosa per fare il punto su una riforma importante come il Federalismo». Una riforma «storica perchè coniuga il principio di responsabilità degli enti locali con quello della coesione sociale».

Alemanno: guardiamo al futuro pensando al presente. «Mentre ci sforziamo di costruire una progettualità, non possiamo dimenticare le emergenze, il piano nomadi, la sicurezza, ma anche il quotidiano. Non voglio che nessuna massaia possa dirci: "vi occupate del futuro e non pensate alle buche"». Così il sindaco di Roma Gianni Alemanno, nel suo discorso conclusivo agli Stati generali della città, nel corso dei quali è stato presentato il Piano strategico di sviluppo per Roma.

«Il nostro è un doppio impegno», ha sottolineato il sindaco, elencando da un lato le grandi opere e i progetti che compongono il piano, dall'altro il lavoro sul fronte della vivibilità della città nel quotidiano. «Accolgo l'invito di Zingaretti a uno sforzo perchè la sfida olimpica venga realizzata in un grande afflato», ha detto. E ha aggiunto che anche per quanto riguarda il Piano strategico illustrato nella due giorni dell'Eur e che dovrà essere approvato dall'Assemblea capitolina, ci sarà adesso un «percorso attraverso precisi momenti istituzionali», con una cabina interistituzionale anche con il Governo. «Il mio predecessore Argan nel 1978 diceva che Roma è una città interrotta perchè ha smesso di immaginare il futuro. È quello che stiamo provando a fare - ha concluso - Roma non può essere schiacciata e tratta indietro dal nostro passato, cui dobbiamo guardare non solo come archeologia, come storia, ma come spinta di valori. Perchè Roma possa dare un segnale a tutta l'Italia».

All’Eur c’è stato un corteo «contro gli Stati Generali di Alemanno e Berlusconi», organizzato dal cartello di movimenti “Roma bene comune”. I manifestanti, in tutto qualche centinaio di persone, hanno sfilato indossando delle maschere raffiguranti il volto del sindaco e del premier. «Diciamo no agli Stati Generali di Alemanno che vengono simbolicamente chiusi da Berlusconi, in questo bunga bunga del cemento e della crisi che si sta abbattendo su Roma - spiega Luca Faggiano, uno dei portavoce del movimento.

Lancio di uova.
Il corteo organizzato tra le vie dell’Eur è stato bloccato in via Beethoven, a poche centinaia di metri dal luogo in cui è partito. I manifestanti si sono fermati di fronte ad un cordone di blindati che sbarra il transito lungo la via, impedendogli di avvicinarsi a via Cristoforo Colombo. Il percorso autorizzato per il corteo infatti era un altro. All’arrivo di fronte ai blindati delle forze dell’ordine i manifestanti hanno lanciato alcune uova contro gli agenti, schierati in tenuta antisommossa. Un manifestante si è anche arrampicato su un blindato per ribadire la richiesta di incontro tra una delegazione del Comitato ed il sindaco Alemanno.

«Il Tevere è un fiume mal custodito: non c'è città europea che non abbia un fiume fruito da tutti i cittadini. Il Tevere è lontano dai cittadini, per questo condivido che bisogna intervenire per il suo recupero». Lo ha detto il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, nel corso degli Stati generali della città.

Torricelli: fuori la città vera, all'Eur solo passerella. «La passerella che si sta consumando dentro il Palazzo dei Congressi dell'Eur è l'ennesima dimostrazione della distanza dell'amministrazione Alemanno dai veri problemi della città». Lo dichiara in una nota Giancarlo Torricelli Coordinatore Sel Area Metropolitana di Roma.

Valeriani: paura del flop, chiamti dipendenti a riempire le sedie. «Ho ricevuto molte segnalazioni dalle aziende del gruppo Comune di Roma rispetto alla fanta-kermesse degli Stati Generali. Sembra proprio che, terrorizzato dall'idea di subire un flop di presenze oltre che di contenuti, il sindaco Alemanno abbia mobilitato tutta la macchina del Campidoglio per riempire le sedie. Dall'Atac per esempio, sono arrivati in 400». Lo dichiara in una nota Massimiliano Valeriani, consigliere del Pd a Roma.

Un marito, 34 mogli, 94 figli: dalle pulizie al sesso gestione “militare”

di: Il Messaggero


NEW DELHI - Ziona Chana, un indiano di 64 anni capo di una setta che permette la poligamia, è alla testa nel nordest dell'India di quella che è considerata la più grande famiglia del mondo, composta da 39 mogli, 94 figli, 33 nipoti e 14 cognate, per un totale di 182 persone. La sorprendente vicenda è riferita dall'agenzia di stampa Pti, secondo cui il capo di questa vera e propria tribù ha costruito nel villaggio di Baktawng, nel nord dello Stato di Mizoram, un edificio di 100 stanze e quattro piani, denominato "Chhuan That Run" (La Casa della nuova generazione).

Entusiasta della sua missione, Ziona ha dichiarato di sentirsi «come un figlio prediletto di Dio. Lui mi ha concesso così tante persone di cui occuparmi. Mi considero un uomo felice come marito di 39 donne e capo della famiglia più grande del mondo».

Per ragioni evidenti, la gestione della casa esige regole pressochè militari, con la moglie più anziana che è al vertice di una catena di comando che si preoccupa di organizzare le pulizie, gli acquisti e la cucina per l'intero gruppo.

Una cena tipo, ad esempio, può implicare l'utilizzazione di 30 polli, 60 chili di patate e 100 chili di riso. Per la gestione del talamo coniugale, Ziona ha messo a punto un sistema che prevede per lui un letto matrimoniale, mentre le mogli utilizzano i dormitori. Le più giovani, tuttavia, alloggiano più vicine alla sua stanza, e si avvicendano nel letto principale con un sistema di rotazione programmata.

Benigni fa più male a Santoro che a Berlusconi

di: Francesco Specchia - Libero

19/02/2011 - «L’indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48% indignazione e al 50% invidia», diceva Vittorio De Sica dei colleghi radical chic che, sulle terrazze romane, l’ impallinavano ad ogni nuovo successo. Invidia, la superbia allo stato grezzo.
Michele Santoro è un ammiratore del De Sica neorealista. Forse lo cita. Ma è spiazzante l’indignazione morale che ieri spinto il tribuno a sfogarsi sul suo sito web, in merito al mostruoso successo di Roberto Benigni a Sanremo. «La partenza del Festival è stata anticipata di mezz’ora e il monologo di Benigni è durato cinquantadue minuti» ha sfrigolato Michele, fresco della palata d’auditel beccata da Raiuno «questa volta Sanremo non ha ospitato una straordinaria performance ma ha inglobato un intero show... Benigni è sempre Benigni. Ma è stato usato per cancellare la diversità. L’operazione grazie a voi (telespettatori) non è riuscita. E noi continueremo ad amarlo lo stesso. Noi». “Noi” è plurale maiestatis.  Santoro lo usa a sfregio, a dimostrare che i suoi 4 milioni di spettatori e passa «bastano per dimostrare che Annozero è indispensabile e che nessuna circostanza può giustificare il tentativo di ridurre la televisione ad un programma unico». Peraltro, nessuno aveva mai detto il contrario; anzi Michele come il Wolverine dei fumetti è il migliore in quello che fa, anche se quello che fa spesso non è piacevole. Ma non è questo il punto.

 Il punto è che Benigni, l’altra notte, ha acceso d’immenso una nazione. Tutta la Nazione. La sua lezione sul Risorgimento, gonfia di slanci di genio e retorica necessaria -vivaddio- è piaciuta al Quirinale, al governo e alle opposizioni, al popolo e alle istituzioni. Era Moliere che incontra Garibaldi che incontra Totò nel monologo struggente della  “Preghiera del clown («Signore, se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura...»). Benigni ha toccato vertici siderali, sia di performance artistica, sia di share. Tecnicamente, nonostante  la sterminata lunghezza della puntata, fino a 15 milioni di telespettatori pendevano dalle sue labbra: la prima parte (20:40 - 23:21) ne ha contati 15 milioni 398 mila, pari ad uno share del 50.23%. La seconda parte del Festival (23:26 - 01:09) ha totalizzato invece 7milioni 529 mila spettatori e uno share del 53.21%. La media ponderata della serata è stata di 12 milioni 363 mila spettatori pari ad uno share del 50.90%. “Annozero” col suo share del 14,13% si è battuto bene, per carità. Ignazio La Russa che scalcia Formigli ripreso da angolazioni impossibili e Lele Mora che si scaccola verbalmente al telefono erano pezzi d’un Barnum gustoso. Ma, diamine, mettersi al livello di questo Benigni è peccare di ubris, della tracotanza degli uomini verso gli dei. Eppoi c’è un altro elemento grandioso di quella serata più vicina al sogno che al reale: Benigni avrebbe devoluto all’Ospedale  pediatrico Meyer di Firenze l’intero cachet festivaliero di 250mila euro. Soldi, peraltro ben investiti dalla Rai che li ha già abbondantemente recuperati nei carichi pubblicitari. Verrebbe da dire: Michele, tu che sei di sinistra, devolvi almeno i tuoi 60mila mensili. Ma sarebbe una provocazione idiota.

Non idiota, ma preoccupante è invece lo slancio egotista, irreale di Santoro, figlio di quell’innamoramento per “la forza della forza della messinscena” che lo portò, in gioventù, ad iniziare una carriera  al Teatrogruppo nella Salerno del surrealismo italiano. Santoro proponeva Sartre, Brecht, Ferlinghetti e il Marat Sade di Weiss (comunisti), alternandoli con la visione dei film di Sergio Leone (reazionario); roba intervallata dalle lotte sindacali e dai comizi col pugno chiuso a favore dell’eroe di Praga Jan Palach. Santoro, come tutti i teatranti che posseggono la supponenza del talento, tende all’introflessione. Annozero dev’essere il centro del mondo: l’ephos della piazza può esplodere  solo su Raidue, il giovedì sera. Sicchè, in questa chiave, Michele legge l’invidia come “base della democrazia” nell’interpretazione che ne dava il comunista Bertrand Russell. Egli vede l’indignazione come afflato letterario. Sicchè, il successo di Benigni fa senz’altro più male a Michele che a Silvio. (Il quale Silvio del fatto che Benigni gli abbia dedicato la metà del tempo di Cavour, Mazzini e Mameli, un po’ dev’essersela presa...).

Ruby come Paris Hilton e Sophia Loren: va alla festa del magnate austriaco

di. Libero

Da Arcore al Ballo delle debuttanti dell’Opera di Vienna: Ruby Rubacuori è stata invitata dal magnate austriaco Richard Lugner, noto come il "re del mattone", al tradizionale Vienna Operanball, evento mondano che attira il meglio dell’alta società di tutto il mondo.

RUBY DOPO LA LOREN E PARIS HILTON
- A riferirlo è Helmut Werner, il portavoce di Lugner, che negli anni scorsi aveva avuto come dame al ballo ospiti del calibro di Sophia Loren, Claudia Cardinale e Paris Hilton. "Abbiamo un accordo con Ruby, che ha accettato ed è molto contenta di poter visitare Vienna per la prima volta. Abbiamo considerato che la giovane da mesi occupa gli spazi di tutte le riviste tedesche e austriache", ha spiegato Werner.  

SEGRETO SUL COMPENSO - Lugner, 78 anni, detto il "mortaio", è un personaggio notissimo in Austria per le sue continue apparizioni sulla stampa scandalistica, tanto che una emittente ha trasmesso una serie televisiva sui segreti della sua vita privata. "Lugner è molto contento che Ruby abbia accettato l’invito", ha aggiunto il portavoce, spiegando che il 2 marzo, il giorno prima del ballo, la giovane marocchina firmerà autografi in un noto centro commerciale del magnate. Ruby resterà a Vienna per due o tre giorni e Werner non ha riferito dettagli sul compenso che riceverà. Il ballo dell’Opera, da tempo immemorabile un evento leggendario, è ospitato dal palcoscenico dell’Opera di Stato di Vienna, uno dei più importanti teatri lirici del mondo.

Giallo Apple: "Job sta morendo". Ma incontra Obama

di: Libero


A Steve Jobs resterebbero sei settimane di vita. L'amministratore delegato e fondatore di Apple sarebbe stato recentemente fotografato fuori dallo Stanford Cancer Center, la stessa struttura in cui si curò anche Patrick Swayze. Il National Enquirer, giornale scandalistico americano, afferma di essere in possesso delle foto in cui si vedrebbe un Jobs dall'aspetto "scheletrico", e avrebbe parlato con lo specialista di terapia intensiva Samuel Jacobson, secondo cui la prognosi per il co-fondatore di Apple non sembrerebbe promettente.

BATTAGLIA CONTRO IL CANCRO
- "A giudicare dalle foto, è vicino allo stadio terminale. Direi che ha sei settimane", avrebbe detto Jacobson. Jobs, che parlò pubblicamente della sua battaglia contro un tumore al pancreas nel 2004, si trova al suo terzo congedo da lavoro per malattia in sette anni. Il sito radaronline.com ha confermato che Jobs, 55 anni, visita regolarmente il centro sui tumori di Palo Alto, California. La precedente assenza di sei mesi di Jobs nel 2009 era stata circondata da voci secondo cui sarebbe stato più malato di quanto avesse detto. Il Wall Street Journal svelò a giugno di quell'anno che il capo di Apple subì anche un trapianto di fegato, legato al suo tumore.

INCONTRO CON OBAMA - Nonostante le indiscrezioni del tabloid statunitense, è previsto per oggi un incontro tra il fondatore di Apple e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Assieme a loro, ci saranno anche il Ceo di Google, Eric Schmidt e l'ideatore di Facebook Mark Zuckerberg.

Cancro: scoperto enzima che ferma le metastasi

di: SIC

E’ noto come Lox1, ed è un enzima che può diventare un importante alleato dei farmaci contro il cancro, rendendoli ancora più efficaci di quelli attuali. Bloccandolo, alcuni scienziati dell’Institute of Cancer Research, ovvero l’Istituto britannico per la ricerca sul cancro, sono riusciti a fermare nei topi le metastasi da un tumore al seno ad altri organi. Secondo il team diretto da Janine Erler, questi risultati hanno messo in luce un nuovo “bersaglio fantastico per farmaci” mirati e presto saranno utilizzati a livello clinico.
Per capire il possibile impatto di questo risultato, basti pensare che il 90% delle morti per cancro è provocato dalle metastasi del tumore. Le pazienti colpite da cancro al seno coinvolte nello studio presentavano alti livelli dell’enzima Loxl2, che è risultato particolarmente importante nei primi stadi di diffusione della malattia, perché aiuta le cellule cancerose a scappare dal tessuto del seno per immettersi nel flusso sanguigno. Nel caso del carcinoma mammario, gli scienziati hanno mostrato che alti livelli di enzima Loxl2 erano collegati con la diffusione del cancro e con bassi tassi di sopravvivenza.
Nel loro studio sui topi, i ricercatori hanno usato composti chimici e anticorpi per bloccarne l’attività: in questo modo sono riusciti ad arrestare il diffondersi del cancro ad altri tessuti. “Questi risultati non sono importanti solo per lo sviluppo dei farmaci, ma anche per mettere a punto test predittivi sulla possibilità di metastasi del cancro nel paziente” ha spiegato Janine Erler.

Tra i ragazzi eroi di Tobruk "Il popolo ti caccerà via"

di: Pietro Del Re - La Repubblica

Viaggio nella zona "liberata" della Libia fra i giovani protagonisti della rivolta mentre in televisione esplode la rabbia di Gheddafi


TOBRUK - Per convincere soldati e poliziotti a fraternizzare con la piazza, i manifestanti hanno cominciato col dare alle fiamme il commissariato. Quel gesto ha reso Tobruk la prima città caduta nelle mani degli insorti. Ora è proprio davanti alle rovine di quell'edificio che da una settimana i manifestanti continuano a raccogliersi, mentre pennacchi di fumo si stagliano sull'orizzonte cristallino del Mediterraneo, innalzati da un deposito di munizioni bombardato dalle truppe guidate da un figlio di Muhammar Gheddafi.

È accaduto anche ieri pomeriggio, mentre il leader concionava in tv agghindato nella tunica marrone del beduino, nel patetico proposito di restituire spessore alla leggenda da lui confezionata riguardo alla sua nascita, per richiamare alla fedeltà i leader tribali che lo abbandonano: lui che si dice figlio di pastori della tribù dei Qadhdhafiya, nato nel 1942 sotto una tenda beduina nei deserti della Sirte.

Quando il suo ghigno sulfureo riempie lo schermo della tv, pochi si raccolgono a guardarlo, se non i più anziani nei caffè attorno alla piazza dove adesso sventola alto il tricolore con la mezzaluna "dell'indipendenza" al posto del vessillo verde introdotto da Gheddafi nel '52 come simbolo della "rivoluzione popolare". Verde come il Libro pubblicato dal tiranno nel 1975 per regolare la Jamahiriyyia, l'immaginario Stato delle masse. È lo stesso che, scolpito in copie di dimensioni monumentali, punteggia il Paese e infatti là fuori i giovani ora stanno demolendone
uno a colpi di piccone. "Ecco la giusta fine di quel libro assurdo", si sgolano i ragazzi. I tonfi del cemento che rotola a terra fanno da sordo controcanto alle raffiche di mitra che riempiono il cielo di Tobruk, sparate per festeggiare "la liberazione".

Sono loro, i giovani, gli eroi della Nuova Rivoluzione, i grandi protagonisti dei moti libici. Per questo, quando la voce di Gheddafi arriva dai televisori, e lui ringhia "Muhammar Gheddafi è il capo della rivoluzione, sinonimo di sacrifici fino alla fine dei giorni" esplodono le invettive degli shebab, i ragazzi: "Per ironia, il "capo della rivoluzione popolare" sta per essere rovesciato dalla vera Rivoluzione popolare della Libia", fanno in coro. "L'uomo è disperato", ironizzano con un misto di rabbia e disgusto per la "stolta furbizia" del leader, che mette le mani avanti: "Se potessi dimettermi lo farei, ma non sono presidente. Però ho il mio fucile e mi batterò fino all'ultima goccia di sangue".

Il coro quasi si smorza, incredulo, nell'ascoltare Gheddafi che nega le stragi di questi giorni: "Noi non abbiamo ancora fatto ricorso alla forza. Non ho ordinato di sparare un singolo proiettile", ripete. Lo fa sullo sfondo della mattanza dei mille morti denunciati questo pomeriggio dalle ong, a fronte dei 400 calcolati dalla Federazione internazionale della Lega dei diritti umani. Un gruppo di medici mostra alcuni proiettili raccolti sul bitume. Uno di loro ha in pugno un proiettile calibro 50, lo stesso calibro usato dalla Nato per trapassare i muri. "Questo spiega l'osceno stato di certi cadaveri, maciullati", dice.

Ma quando la voce di Gheddafi rimbomba, indirizzandosi ai giovani con l'epiteto di "topi di fogna"; quando li minaccia: "Restituite immediatamente le armi, se no ci saranno mattanze"; e poi evoca i massacri di Tienanmen, nell'89 a Pechino, e la fine di Fallujah, il bastione sunnita iracheno distrutto dagli americani nel 2004, anche gli anziani gli lanciano epiteti di "Kalb, kalb", cane, cane, "rognoso e rabbioso". Seguiti da "Abbasso il macellaio". Il frastuono copre il discorso del "re dei re d'Africa" (il titolo di cui s'è fregiato nel 2009 a capo dell'Unione africana) quando lui promette ai "rivoltosi la pena di morte", legge i codicilli del Libro verde, e si appella ai libici: "Voi che mi amate, voi libici tutti, uomini e donne uscite dalle case, attaccate i topi di fogna nei loro rifugi, purgate la Libia centimetro per centimetro, casa per casa, strada per strada. Prendeteli, arrestateli, consegnateli alla polizia. Milioni mi difenderanno, fatevi sentire e gridate "Sacrificheremo l'anima e il sangue per il nostro leader".

"Muhammar Gheddafi non è una persona normale, che si possa avvelenare o abbattere con una rivoluzione", urla ancora e poi resta senza fiato il rais. Scrosci di risate in piazza e nei caffè. "Il muro della paura è caduto", commentano di rimando. Finché al tentativo di sminuirli: "Stanno soltanto copiando l'Egitto e la Tunisia", gli shebab rispondono con lo slogan universale delle rivoluzioni arabe: "Erhal, erhal", vattene, vattene.

Sono loro che hanno pagato il prezzo più alto, e che si preparano a prendere in mano le redini del Paese. Loro, che vedi pattugliare i posti di blocco che puntellano la Libia liberata, ossia tutta la fascia orientale del Paese. Indossano gli abiti più strampalati. Felpe, maglioni a righe, giacconi da cacciatore. Hanno tutti un cappello in testa, e ce ne sono dalle fogge più strane. Molti, forse per ridicolizzare quelle di Gheddafi e del suo "amico" Berlusconi, si fasciano la testa di coloratissime bandane. Scherzano, ridono, ballano, pur essendo tutti armati, chi di Kalashnikov, chi di rivoltelle, chi di mazze ferrate. Dopo aver controllato il portapacchi delle auto, di solito benedicono il conducente con una frase del Corano.

E sono ancora una volta loro che accolgono i giornalisti con entusiasmo: "Perché avete tardato?". "Finalmente", dicono, possono consegnare i video dei massacri: immagini a volte troppo raccapriccianti, di corpi esplosi in pezzi. Altri filmati confermano le sparatorie sui dimostranti.
Alcuni gruppi sono già partiti verso Tripoli, mentre il movimento si sposta verso occidente a dare man forte alla protesta. In senso inverso, cioè in direzione del confine egiziano, incrociamo pulmini carichi fino all'inverosimile. Sono gli immigrati che tornano a casa. Riportano notizie di Tripoli, di elicotteri che continuano a sparare sui manifestanti, di "orrende sevizie da parte delle milizie di Gheddafi, di notti di terrore coi mercenari che sparano su tutto e tutti, mentre i feriti restano a dissanguarsi sull'asfalto, perché è impossibile soccorrerli sotto i tiri dei proiettili". I lavoratori stranieri vanno a imbottigliarsi alla frontiera di Musaid: aspettano in fila almeno seimila persone. Altri due milioni pensano di espatriare.

Islam secondo ragione

di: Giulio Albanese - Avvenire


La "rivolta del pane" che sta attraversando in questi giorni diverse nazioni del mondo arabo dovrebbe rappresentare l’occasione opportuna per operare un sano discernimento su quelle che sono state, in questi anni, le istanze della società civile nei Paesi della Mezzaluna. Infatti, accanto ai movimenti di matrice salafita fautori della jihad ("la guerra santa") – quelli che hanno dominato la scena internazionale dopo il tragico 11 settembre del 2001, occupando peraltro quasi tutto lo spazio mediatico –, esiste anche un’altra variegata corrente di pensiero di matrice riformista che intende fare propri i valori della modernità, con l’intento d’integrarli con la sana tradizione islamica. A differenza però del salafismo, questo movimento modernista finora non era stata capace di manifestare una matrice unitaria, rimanendo confinato nei circuiti della clandestinità o della semiclandestinità imposta dai vari regimi. Ecco perché quanto è avvenuto al Cairo, come anche a Tunisi, per non parlare di altre nazioni in cui è in atto la rivolta, ha assunto una valenza epocale, avendo consentito a questa economia sommersa, fatta di menti straordinariamente innovatrici, di emergere dai bassifondi della Storia.

Anche se al momento nessuno è in grado di fare previsioni sui futuri sviluppi della situazione nel mondo arabo, ciò che sorprende è che in tutti questi anni, soprattutto a partire dalla tragedia delle Torri gemelle, nessun Paese occidentale abbia mai avuto il buon senso e la lungimiranza di sostenere politicamente e finanziariamente questa intellighenzia islamica moderata. Tralasciando quelli che unanimemente vengono considerati i padri del cosiddetto modernismo islamico, come il giurista <+nero>’Abd al-Raziq<+tondo> (1888-1966) o il critico letterario Taha Hussein (1889-1973), vi sono state molte voci che hanno rivelato il bisogno di un cambiamento.

Emblematico, ad esempio, è il pensiero di Sayyed al-Qimanî, uno scrittore egiziano contemporaneo, che ha difeso a denti stretti il razionalismo, affermando che esso è patrimonio della tradizione islamica, riferendosi non solo al pensiero del filosofo Averroè, ma addirittura spiegando come un certo tipo di analisi razionale delle situazioni fosse una delle caratteristiche proprie del profeta Maometto. La parola del Corano, infatti, secondo al-Qimanî si storicizza incarnandola negli avvenimenti e non mantenendola in uno stato di astrazione e ripetitività come fanno i salafiti.

Un altro intellettuale che ha invocato il rinnovamento è stato il suo connazionale Khalîl ’Abd al-Karîm, che ha presentato la propria lettura storica, basata direttamente sulle fonti storiche dell’islam, come alternativa alla visione fondamentalista degli estremisti.

E cosa dire di dell’intellettuale tunisino Mohammed Talbî, considerato uno dei pensatori critici più ragguardevoli del mondo arabo? Denunciando gli studiosi religiosi islamici tradizionali egli ha sostenuto con forza la necessità di una lettura contemporanea del Corano, ricordando, quasi provocatoriamente che «quando si rompono le penne, non rimangono che i coltelli». Avvincente è anche il pensiero di Mohammed Arkoun, scomparso pochi mesi fa e considerato uno dei padri del dialogo interreligioso. Professore emerito di Storia del pensiero islamico alla Sorbona di Parigi, Arkoun ebbe il merito di evidenziare le tensioni e le inquietudini presenti nel mondo arabo. Di nazionalità algerina, egli è passato alla storia come strenuo difensore del modernismo e dell’umanesimo islamico.

Per non parlare di personaggi del calibro del premio Nobel per la Letteratura, l’egiziano Nagîb Mahfûz, morto nel 2006 alla veneranda età di novantaquattro anni. Fautore di una religione tollerante e progressista, in aperto contrasto con le tendenze estremiste che inneggiano all’odio contro l’Occidente, aveva compreso che la missione dello scrittore consiste anzitutto e soprattutto nell’essere coscienza critica del popolo a cui appartiene.

Ciò che colpisce di più leggendo le sue opere è il sano realismo che lo porta al superamento di ogni fanatismo ideologico e religioso. Si considerava un portavoce del "Terzo Mondo" e auspicava – sono sue testuali parole – «una pulizia morale» della società contemporanea, nella consapevolezza che, nell’eterna lotta tra il bene e il male, il bene avrebbe comunque prevalso. Mahfûz si opponeva dunque alla dottrina dello scontro delle civiltà, aborrendo le ideologie astratte e tifando per l’uomo della strada all’insegna della tolleranza.

Un’altra figura straordinaria è quella di Mahmoûd Mohammed Taha, giustiziato dal presidente sudanese Ja’far al-Nimeyri il 18 gennaio 1985. Il suo era un nuovo modo di rileggere il Corano che portava alla netta separazione tra la dimensione religiosa della rivelazione coranica, universalmente valida ed immutabile, e quella politica, legata alle situazioni storiche e dunque mutevole. Taha proponeva pertanto la riconciliazione dell’islam con la libertà di religione, con i diritti umani e l’uguaglianza dei sessi. Per questa sua visione di grande apertura e dialogo fu impiccato a Khartoum come apostata.

Ma non è tutto qui. Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, diceva che l’islam contemporaneo è nel suo XIII-XIV secolo; e se guardiamo alla storia europea di quel tempo, scopriremo che per il Vecchio continente non era ancora iniziato alcun processo di modernizzazione. Secondo Shari’ati, per superare il Medioevo i musulmani non possono pensare di saltare a pie’ pari cinque, sei secoli, arrivando di getto alla cultura moderna. «Dobbiamo riformare l’islam – scriveva – rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medioevo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale». Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco a Londra nel giugno del 1977 – anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dell’allora scià di Persia –, indicano chiaramente il percorso che occorre seguire.

In questi anni i Paesi occidentali hanno fatto o poco o niente per far conoscere al mondo queste voci che ogni intellettuale onesto, ogni politico che si rispetti e ogni giornalista competente dovrebbero diffondere per il bene e il progresso del mondo arabo. Lungi da ogni retorica, uomini come l’iraniano Akbar Ganji, giornalista simbolo della dissidenza al regime degli ayatollah, fanno davvero riflettere. A causa dei suoi articoli, e della partecipazione a una conferenza sul futuro dell’Iran tenutasi a Berlino – dove, secondo il regime iraniano, si era fatta «propaganda anti-islamica» – Ganji viene incarcerato dal 2001 al 2006 nella severissima prigione di Evin.

È in questo periodo che trova la forza di scrivere, nonostante i patimenti inflitti dai suoi carcerieri, un manifesto politico in cui propugna il boicottaggio delle elezioni presidenziali per sostituire la teocrazia dominante con un governo democratico e laico. Nel 2010 ha vinto il premio "Milton Friedman", assegnato dal Cato Institute «per avere dato un contributo significativo all’avanzamento verso la libertà». Ci sono naturalmente molte altre voci riformiste nel mondo islamico. Basti ricordare lo scrittore egiziano Faraj Fôda, che a lungo ha lottato per la laicità dello Stato e per la separazione tra religione e politica, e che venne assassinato dagli estremisti nel 1992.

Una cosa è certa: quanto sta avvenendo trasversalmente nel mondo arabo è sintomatico del malessere indotto dall’integralismo islamico. A questo riguardo è illuminante il pensiero di Abdelwahab Meddeb, nato a Tunisi e professore di letteratura comparata all’Università di Parigi X-Nanterre. Meddeb, con grande perspicacia, analizza le contraddizioni e i limiti del’islam salafita e, in particolare, le ragioni del latente scontro di civiltà con l’Occidente.

Nella sua ultima fatica letteraria, intitolata La malattia dell’islam, denuncia l’ottusità dei fondamentalisti che guardano all’Occidente come alla causa di tutti i mali. E qui ha davvero ragioni da vendere a bizzeffe: per esempio, l’islam predicato dai fautori della jihad deve smetterla di auto commiserarsi, perché i suoi fallimenti sociali, a dispetto della predicazione delirante di certi imam, sono in gran parte una sua responsabilità. Non resta dunque che sperare nel cambiamento, augurandosi una maggiore coerenza dall’Occidente, paladino della democrazia. Che esso non ceda ancora una volta a quella che Martin Luther King definiva la peccaminosa tentazione del «silenzio degli onesti».

martedì 22 febbraio 2011

Eni sospende l'attività di produzione petrolifera e di gas. Sulle scorte «nessun problema per molti mesi»

di: Il Sole 24 Ore

«In seguito alla temporanea sospensione di alcune attività di produzione di gas naturale in Libia, la fornitura di gas attraverso il gasdotto Greenstream è sospesa». Lo ha annunciato l'Eni. Il gruppo ha confermato di essere «in grado di far fronte alla domanda di gas da parte dei propri clienti». Attualmente la Libia fornisce circa il 10% del fabbisogno italiano di gas.


La sospensione dell'invio di gas dalla Libia attraverso il Greenstream non porterà problemi all'Italia «per molti mesi da adesso, poi arriva il periodo estivo e si abbassano i consumi, quindi siamo moderatamente tranquilli». È quanto ha affermato un portavoce dell'Eni intervistato da Sky Tg24. Il portavoce del gruppo petrolifero ha spiegato che non è possibile al momento prevedere quando riprenderà il flusso, perché dipende dall'evolversi della situazione in Libia: «Finché la produzione è sospesa - ha sottolineato - non possiamo inviare il gas in Italia. Tuttavia possiamo approvvigionarci con il gas russo, quello algerino e quello norvegese, quindi possiamo far fronte alla domanda con tranquillità per molti mesi perchè di gas ce n'è tanto» e «in questo momento» non è necessario ricorrere alle riserve. L'Eni smentisce quindi «categoricamente» quanto affermato nel pomeriggio da alcuni clienti (Edison, ndr), secondo cui il Cane a sei zampe non sarebbe in grado di assicurare il flusso richiesto. Quanto a eventuali boicottaggi alle strutture Eni da parte degli insorti, ha concluso, «al momento non se ne ha notizia».

Nel frattempo, il ministro del petrolio degli Emirati Arabi Uniti, ha detto oggi a Riad che l'Opec «è pronto, se necessario,ad intervenire per garantire approvvigionamenti sufficienti al mercato e contrastare i continui rialzi del prezzo del greggio scatenati dalla crisi».
La crisi libica sta facendo volare i futures sui prezzi del petrolio. A Londra il contratto sul Brent con consegna ad aprile è arrivato a toccare i 108,57 dollari per poi moderare il rialzo e attestarsi a 107,93 dollari. A New York i futures sul Wti sempre con consegna ad aprile (i contratti per marzo, quotati a 94,26 dollari, sono in scadenza oggi) sono saliti a 98,15 dollari al barile. A preoccupare i mercati è il timore che la rivolta possa contagiare dopo la Libia anche altri Paesi del Medio Oriente.

Libia: La Russa,difesa pronta a rimpatri

di: ANSA

Per il rimpatrio o l'eventuale evacuazione degli italiani dalla Libia la Difesa e' pronta a mettere in campo 4-5 aerei C-130, alcune navi e, se necessario, qualche centinaio di militari. Lo ha detto il ministro della Difesa, La Russa, sottolineando che di tutto cio' si parlera' nella riunione ministeriale di questa sera. La Russa ha poi sottolineato che la Difesa ha individuato tre aree dove eventualmente ospitare gli immigrati che potrebbero giungere in Italia in seguito alla crisi in Libia.

Libia/ Manifestazioni a Malta, bruciate bandiere italiane

di: TM news

Al Jazeera: Personale dell'ambasciata si è unito ai dimostranti


Il personale dell'ambasciata libica a La Valletta, a Malta, si è unito ai manifestanti all'esterno, per chiedere la caduta del regime di Muammar Gheddafi. I manifestanti hanno bruciato, in segno di protesta, alcune bandiere dell'Italia, considerata troppo legata al Colonnello. Lo riferisce l'inviato di al Jazeera a Malta.
Intanto, i due piloti disertori arrivati ieri a bordo di jet libici hanno chiesto asilo politico.

Libia/ Clinton: "Violenza totalmente inaccettabile"

di: TM news

Annuncia che saranno prese "misure appropriate"

Il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha definito la violenza contro i manifestanti libici "totalmente inaccettabile" e ha detto che il governo libico "è corresponsabile" degli scontri che hanno provocato centinaia di morti. In una conferenza stampa martedì, Clinton ha detto che Washington si unisce alla comunità internazionale, da parte della quale "non ci sono state ambiguità" nella condanna della repressione da parte del regime di Muammar Gheddafi.
"E' responsabilità del governo libico rispettare i diritti universali del suo popolo, compreso il diritto alla libera espressione e a riunirsi", ha detto Clinton ripetendo la linea tenuta fino dall'inizio delle dimostrazioni anti-Mubarak il mese scorso.
Era la prima volta che Clinton parlava della situazione in Libia. "Man mano che comprenderemo meglio cosa sta succedendo davvero", ha detto, "prenderemo le misure appropriate, in linea con le nostre politiche, i nostri valori e le nostre leggi".

Libia: Eni, sospesa fornitura gas da Greenstream

di: ANSA

ROMA, 22 FEB - La fornitura di gas attraverso il gasdotto Greenstream e' sospesa. Lo comunica l'Eni, precisando di essere in grado di far fronte alla domanda di gas dei propri clienti. La decisione di chiudere temporaneamente il gasdotto ''Greenstream'', che collega l'Italia ai giacimenti della Libia, sarebbe stata decisa dall'Eni gia' nella tarda serata di ieri, quando, dalla centrale di pompaggio di Mellitha e' iniziata la graduale riduzione della quantita' di metano da inviare alla stazione di ricevimento di Gela.

LIBIA: BERLUSCONI A GHEDDAFI, MAI FORNITO RAZZI AI MANIFESTANTI

di: ASCA


Roma, 22 feb - L'Italia non ha mai fornito razzi a coloro che in questi giorni stanno manifestando in Libia contro il regime di Gheddafi. Lo ha sostenuto, secondo quanto si apprende, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel corso della telefonata con il leader libico. Gheddafi oggi pomeriggio, nel suo intervento televisivo, aveva accusato l'Italia (insieme agli Stati Uniti) di avere rifornito di razzi i manifestanti. Sempre secondo quanto si apprende, Berlusconi avrebbe invitato il leader libico a lavorare per la ricerca di una soluzione pacifica della rivolta scongiurando cosi' una possibile guerra civile.

Almeno mille morti in Libia. Gheddafi parla in Tv: Morirò qui

di: kan-San - TM news

Roma, 22 feb. (TMNews) - Muammar Gheddafi non è scappato in Venezuela, non intende cedere il potere, e ha chiesto al popolo della Libia di domare la rivolta sterminando i "ratti e drogati" assoldati dagli stranieri. Così il leader libico, in un lungo discorso alla televisione di Stato, ha cercato di serrare le fila dei suoi sostenitori: il colonnello ha fatto leva sull'orgoglio nazionale e tribale, con una dimostrazione di forza che però ha fatto anche comprendere la gravità della ribellione in corso. Una ribellione che secondo alcune fonti sarebbe costata la vita già a oltre mille persone.

Avvolto in un caffetano marrone chiaro, con scialle e turbante, Gheddafi si è rivolto al popolo dall'ex palazzo presidenziale, bombardato dagli aerei statunitensi nel 1986. Nella prima parte del discorso il rais è apparso nervoso e ha gridato con rabbia per quasi 20 minuti: "Gheddafi non ha incarico per essere dimesso, è il leader della rivoluzione", ha subito messo in chiaro, ricordando la ex potenza coloniale: "L'Italia, allora un grande impero, si è trovata sconfitta di fronte alla Libia - ha detto Gheddafi - io sono un lottatore, ho sempre lottato per una rivoluzione storica". Il colonnello ha anche accusato Italia e America di aver armato con razzi rpg i ribelli di Bengasi.

"Uscite dalle vostre case, andate a sterminare questi ratti", ha urlato il rais, quasi cercando di recuperare un consenso popolare ormai incerto. "Io vi ho restituito il petrolio, prima il 90% se lo portavano via gli stranieri" ha aggiunto sempre con tono furioso, "oggi il mondo conosce la Libia, tutti i popoli africani considerano la Libia una guida, tutti i grandi del mondo vengono a Tripoli e Bengasi". "Volete che gli americani occupino il Paese come hanno fatto in Somalia e Afghanistan?", ha insistito, accusando poi i ribelli di essere come terroristi di Al Qaida.

Dopo le voci riguardo presunti aiuti italiani al governo libico, Palazzo Chigi si è affrettato a smentire: "Sono totalmente false, provocatorie e prive di fondamento". Per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano le violenze in Libia devono cessare. In serata si è appreso di una telefonata fra Berlusconi e Gheddafi, successiva al discorso, in cui il premier ha "seccamente smentito" che l'Italia abbia armato con razzi i ribelli.

Intanto centinaia di italiani sono tornati in patria con voli speciali. La nave della marina militare Francesco Mimbelli è salpata da Taranto per posizionarsi al largo delle coste libiche. Si tratta di un cacciatorpediniere lanciamissili con un equipaggio di circa 400 persone, specializzata nella difesa dello spazio aereo.

Contagio e infezione

di: il Foglio

“Resterò in Libia e morirò da martire”, dice Gheddafi. Ma la sua sorte dipende da clan e mercenari

Muammar Gheddafi ha parlato alla nazione, l’ultimo tentativo per fermare la rivolta che scuote la Libia da Tripoli alla Cirenaica. “Morirò da martire come i miei nonni, non lascerò questa terra – ha detto nel lungo messaggio trasmesso dalla tv di stato – Ho realizzato la gloria del popolo libico, un piccolo gruppo di terroristi non sarà la scusa per far arrivare nel paese gli americani”. Rivolgendosi ai ribelli, ha minacciato di “ripulire la Libia casa per casa. Consegnate subito le armi e i poliziotti catturati. Abbiamo bisogno di stabilità e di sicurezza”. Il colonnello ha lanciato un avvertimento ai paesi stranieri che, a suo dire, avrebbero fornito “razzi Rpg ai ragazzi di Bengasi”. In passato, ha detto, “abbiamo sfidato l’arroganza dell’America e della Gran Bretagna e non ci siamo arresi. Anche l’Italia è stata sconfitta sul suolo libico”. Gheddafi ha parlato da una delle sue case di Tripoli, la stessa che fu bombardata dai caccia americani nel 1986 e che oggi è un monumento nazionale. Dopo la minaccia di trasformare Bengasi in una nuova Tiananmen, il colonnello ha promesso l’inizio delle riforme – a partire dalle “autonomie regionali” – e la distribuzione dei proventi petroliferi.

Il discorso non ha fermato gli scontri. Gli oppositori dicono di controllare mille chilometri di costa, mentre decine di testimoni assicurano che le strade di Tripoli sono ormai “un campo di battaglia”. Al Jazeera riporta che le tribù ribelli hanno sottratto all’esercito il controllo dei confini. Il gasdotto Greenstream, che rifornisce l’Italia, è stato bloccato a Nalut. Per al Arabiya, i morti sono “più di mille”. Il segretario di stato americano, Hillary Clinton, ha ribadito ieri la condanna delle violenze.

Il destino del rais dipende dalla tenuta dell’apparato militare, che sarebbe sul punto di crollare. Uno dei pochi dati certi di questa rivolta è lo scarso contributo dell’esercito alla repressione. A Bengasi, almeno due brigate dell’esercito sono passate dalla parte  dei rivoltosi. Una soltanto, la al Sibyl, combatteva anche ieri agli ordini di Gheddafi. Le defezioni avrebbero indotto Gheddafi a mettere agli arresti domiciliari il capo di stato maggiore, Abu Bakr Yunis Jaber, e il suo vice, El Mahdi El Arabi. Due dei dodici Mirage F1 sono atterrati martedì a Malta, e altri due hanno raggiunto la base di Bengasi che aderisce alla rivolta. I piloti si sono rifiutati di compiere raid contro i manifestanti, anche se pare che la gran parte delle incursioni aeree sia soprattutto volta a distruggere i depositi di armi nelle zone sotto il controllo dei rivoltosi.
La Valletta sarebbe la destinazione di una nave militare salpata ieri e manovrata da ufficiali disertori, come dice il quotidiano Times of Malta: la nave sarebbe ora seguita dalla corvetta italiana Fenice. Gheddafi ha costituito fin dagli anni Settanta un sistema di difesa popolare che, in caso d’invasione, avrebbe trasformato ogni cittadino in un combattente. Il colonnello, del resto, ha sempre diffidato dei militari: già nel 1971, due anni dopo il golpe contro re Idris, costituì i Comitati popolari, una milizia paramilitare composta da 40 mila fedelissimi che rappresenta la manovalanza dei servizi di sicurezza interni. Le due strutture sono sotto il controllo di parenti di Gheddafi o di membri del suo stesso clan.

L’appartenenza tribale è un requisito decisivo nelle forze dell’ordine. I posti di pilota dell’aeronautica, di ufficiali nelle brigate missilistiche e della Guardia sono assegnati ai membri del clan del raìs. Tutti gli altri ufficiali che affiancarono Muammar Gheddafi nel golpe del 1969 sono stati eliminati o costretti a fuggire all’estero. Nel 1985 alcune brigate dell’esercito e un reparto di Mig dell’aeronautica tentarono di rovesciare il regime, ma il piano fu scoperto e una sessantina di ufficiali furono giustiziati. Dodici anni più tardi, la rivolta del Gruppo militante islamico libico fu soffocata sulle colline del Gebel el Akhdar soprattutto da un migliaio di mercenari serbi reclutati tra i reduci della guerra in Bosnia – appoggiati da cacciabombardieri Mig ed elicotteri d’attacco pilotati da mercenari russi e ucraini.

I mercenari sono una presenza costante nelle Forze armate libiche, servono ad addestrare i reparti e a mantenere efficienti i mezzi. Oggi sembrano costituire uno dei più importanti strumenti di repressione nelle mani del regime. Il loro numero pare inferiore ai 35 mila stimati dall’opposizione. Tra loro ci sarebbero ex poliziotti tunisini e algerini, anche se per la gran parte si tratterebbe di volontari arruolati dagli agenti libici nei paesi del Ciad e in Mauritania, dove Gheddafi ha sempre trovato manovalanza per la sua legione straniera.

domenica 20 febbraio 2011

Stati Uniti sotto shock: nella clinica abortista bambini massacrati a forbiciate

di: nocensura.com

Gli Stati Uniti sono sotto schock per una vicenda che riguarda ancora le cliniche abortiste. Sotto accusa è anche finito Kermit Gosnell, noto medico abortista di Philadelphia, specializzato in aborti tardivi da ben 30 anni, incriminato -assieme alla moglie e a nove suoi collaboratori- per la morte di una paziente, Karnamaya Mongar, e per aver ucciso sette bambini nati vivi nella sua clinica di salute, la Gosnell West Philadelphia Women’s Medical Society. La relazione della Grand Jury, reperibile qui,ha rilevato che i bambini sono stati fatti nascere per poi essere massacrati tagliando loro il midollo spinale con delle forbici. La crudeltà degli episodi ha spinto l’Arcidiocesi di Philadelphia ad intervenire dichiarando che: «Le ripetute azioni di Dr Gosnell e il suo staff sono ripugnanti e intrinsecamente malefiche nel loro disprezzo per la vita del nascituro e il benessere delle donne che hanno cercato i loro servizi. Siamo pronti ad assistere con servizi di supporto le donne che hanno subito questi aborti e siamo pronti ad offrire degna sepoltura ai bambini abortiti». Il procuratore distrettuale Seth Williams ha dichiarato in una nota che i bambini erano «vivi e in salute». Inoltre ha parlato della probabilità che centinaia di altri bambini siano morti nella clinica tra il 1979 e il 2010.

Williams ha anche aggiunto che nell’incursione dell’FBI, gli agenti hanno trovato, sparsi per tutta la clinica, dei vasi con piedi di bambini, contenitori come brocche di latte, recipienti per cibo dei gatti e sacchetti, contenenti feti abortiti. Mobili e pavimenti erano macchiati di sangue e urina. Molti membri del personale sono stati inoltre trovati privi di licenza. In un rapporto di 260 pagine, la grande giuria ha definito la clinica un «ossario per bambini». Il rapporto contiene vivide descrizioni delle procedure e foto dei bambini morti (o almeno dei loro resti). Come si è detto, la clinica abortista procurava frequentemente aborti a bambini di 24-32 settimane di gestazione, nonostante per le legge della Pennsylvania fosse vietato. Gli agenti dell’FBI hanno descritto la struttura abortista con termini come “deplorevole”, “sporca”, “disgustosa” e “insalubre, molto arretrata, orrenda”, si legge sempre nel rapporto. Un tanfo di urina riempiva l’aria mentre feci di gatto si trovavano sulle scale. I membri del personale (tra cul la moglie di Gosnell) sono accusati di omicidio, aborto illegale, cospirazione, racket, ostacolo dell’accusa, manomissione, ostruzione alla giustizia, furto con inganno, falsa testimonianza e corruzione di un minore. La giuria ha quindi proposto raccomandazioni per i governi statali e locali a prendere in considerazione la possibilità di modificare e disciplinare il lavoro all’interno delle cliniche abortiste.



venerdì 18 febbraio 2011

Cassazione, l'impiegata insulta il capo? No al licenziamento se è la prima offesa

di Valentina Errante - Il Messaggero
 
Sabato 12 Febbraio 2011 - 17:42    Ultimo aggiornamento: Domenica 13 Febbraio - 10:58
 
ROMA - Mandare a quel paese il capo si può. Purché avvenga una tantum. E a farlo sia un ”impiegato modello”. La licenza, a patto che sia «di carattere episodico», arriva dalla Cassazione. La Suprema Corte ha respinto il ricorso di una casa di cura di Catanzaro, che aveva licenziato una dipendente ”colpevole” di alcune intemperanze e di avere usato espressioni offensive nei confronti di un superiore. Secondo la Cassazione (sezione lavoro, sentenza 3042) «un comportamento, per quanto grave, se ha carattere episodico e se è riconducibile a un dipendente che non ha mai dato luogo a censure comportamentali, non può arrivare a un giudizio di particolare gravità» tale da determinare il licenziamento.

La Suprema Corte ha così confermato il reintegro nel posto di lavoro di Aurora P., che era stata licenziata dalla casa di cura il 29 ottobre del 2002. La donna aveva ricevuto una ”nota di contestazione” dal datore di lavoro: le si rimproverava di essere rientrata in servizio senza autorizzazione in un periodo di congedo e, soprattutto, di avere pronunciato, in quell’occasione, «espressioni offensive nei confronti di un superiore». Aurora P. era ”accusata” anche di avere ricostruito in maniera non veritiera i fatti in sede di audizione.
Cacciata dall’azienda, la donna si era rivolta alla giustizia ed era stata reintegrata. Sia in primo grado, dal giudice del lavoro, sia, in secondo grado, dalla Corte d’Appello di Catanzaro. Adesso si è rivelato inutile il ricorso della casa di cura alla sezione lavoro della Cassazione.

Gli avvocati dell’azienda puntavano a dimostrare che le intemperanze della dipendente meritassero il licenziamento disciplinare. Ma la Suprema Corte ha respinto il ricorso, sottolineando che la sentenza impugnata «è particolarmente diffusa per escludere che quei fatti, in via generale punibili con sanzione conservativa, ricoprissero quel carattere di particolare gravità che giustificherebbe il licenziamento».

In definitiva, conclude Piazza Cavour, un lavoratore modello, «per quanto possa avere sul posto di lavoro un comportamento grave», se è di «carattere episodico» non merita di essere cacciato.
E non è la prima volta. L’anno scorso proprio la Cassazione aveva dato ragione al collaboratore di uno studio legale che, commentando una nota inviata dall’ufficio contabilità alle segretarie, aveva definito «pazzo» il capo e «lecca c..» i colleghi. La faccenda era finita in Tribunale con una querela presentata dai soggetti insultati. Ma la Corte, alla fine, ha accolto le argomentazioni dell’imputato che sosteneva di avere utilizzato quelle espressioni, non per offendere, ma come termini di uso comune per criticare l’assurda burocrazia di un luogo di lavoro, accettata passivamente dagli altri dipendenti. E alla fine i giudici gli avevano dato ragione, attribuendo agli insulti anche una valenza «costruttiva». Perché, hanno sostenuto, il termine «pazzo» ha finito col perdere la sua «valenza offensiva per diventare espressione sintetica ed efficace rappresentativa di una condizione scorretta dell’ufficio», che potrebbe portarlo alla rovina.

Unità d'Italia, il 17 marzo sarà festa La Lega: è una follia incostituzionale

di: Il Messaggero

No di Bossi e Calderoli in Consiglio dei ministri. Maroni  non vota. Bersani: il governo spaccato è una vergogna
 
ROMA - Il Consiglio dei ministri ha deciso: il 17 marzo, 150 anni dell'unità d'Italia, sarà festa nazionale. Ma nel governo è scontro e tre ministri votano contro.

Al decreto legge che ha istituito la festa il 17 marzo, ha detto infatti il ministro della Difesa, Ignazio La Russa in una conferenza stampa a Palazzo Chigi, non hanno aderito «tre ministri» della Lega: Roberto Calderoli e Umberto Bossi hanno votato contro, mentre Roberto Maroni aveva già lasciato l'aula del Consiglio dei ministri quando si è proceduto alla votazione. L'annuncio dell'esecutivo arriva dopo le pesanti critiche degli industriali, contrari a un giorno di festa, e della Lega, ostile da sempre alle celebrazioni.

«Siamo soddisfatti, senza trionfalismi di nessun genere possiamo dire che il 17 marzo sarà festa nazionale con tutti gli effetti civili. Erano sorte questioni non ingiustificate sulla interpretazione delle norme ed in tempo brevissimo da quando il problema è stato sollevato, con la non adesione di 3 ministri, è stato approvato il decreto legge, stabilendo che si trasferiscono gli effetti economici e gli istituti giuridici, solo per il 2011, dal 4 novembre al 17 marzo», ha precisato La Russa.

Il decreto legge che considera giorno festivo il 17 marzo 2011 prevede che «al fine di evitare nuovi
e maggiori oneri a carico della finanza pubblica e delle imprese private, per il solo anno 2011 gli effetti economici e gli istituti giuridici e contrattuali previsti per la festività soppressa del 4 novembre non si applicano a tale ricorrenza ma, in sostituzione, alla festa nazionale per il 150/o anniversario dell'Unità d'Italia».

«Dobbiamo ricordare che il 17 marzo è la data più unificante che abbiamo», ha commentato il ministro della Gioventù Giorgia Meloni. Per Meloni, sarebbe stato «sbagliato» non celebrare adeguatamente la data.

«Fare un decreto legge per istituire la festività del 17 marzo, un decreto legge privo di copertura (traslare come copertura gli effetti del 4 di novembre, infatti, rappresenta soltanto un pannicello caldo e non a casa mancava la relazione tecnica obbligatoria prevista dalla legge di contabilità), in un Paese che ha il primo debito pubblico europeo e il terzo a livello mondiale e in più farlo in un momento di crisi economica internazionale è pura follia. Ed è anche incostituzionale»: lo dice il ministro Roberto Calderoli (Lega Nord) dopo la decisione del Consiglio dei ministri. Secondo l'eurodeputato Mario Borghezio, per i "patrioti padani" il 17 marzo sarà una giornata di lutto.

«È veramente una vergogna avere un governo che riesce a spaccarsi su cose di questo genere: è un calcio negli stinchi al Paese», ha detto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, secondo il quale tutto questo «è la testimonianza in più che l'Italia ora non ha un governo e un presidente del Consiglio in grado di dare una rotta al Paese».

«Rimaniamo convinti che la ricorrenza del 17 marzo avrebbe potuto essere celebrata al meglio lavorando, producendo reddito e raccogliendosi attorno alla bandiera nazionale negli uffici e nelle fabbriche - ha commentato Confindustria, fortemente contraria a un nuovo giorno festivo per l'Unità d'Italia -. Diamo tuttavia atto al governo di aver messo a punto una soluzione che attenua fortemente l’aggravio economico a carico delle imprese»

Intanto il presidente della provincia di Bolzano Luis Durnwalder, dopo lo scontro della scorsa settimana sui festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità, ha invitato in Alto Adige il capo dello Stato. «Ho scritto una lettera di risposta al presidente Napolitano e credo che ne sarà molto contento. Lo invito in ogni momento in Alto Adige e sono disposto a spiegargli anche a voce a Roma la mia posizione». Lo ha detto il governatore dell'Alto Adige dopo il richiamo di Napolitano alla partecipazione alle celebrazioni per l'unità d'Italia, seguito alle dichiarazioni contro i festeggiamenti i Durnwalder.

«Proprio Napolitano - ha detto Durnwalder in un intervento - mi ha aiutato
a riottenere la possibilità di usare gli schioppi per gli Schuetzen. Stesso discorso in altre occasioni: con il presidente della Repubblica ho avuto, quando era ministro, ed ho ancora ottimi rapporti». «Noi sappiamo - aggiunge Durnwalder - da dove è partito l'input per l'intervento di Napolitano. Se avrò la possibilità di parlare con il presidente, allora capirà, perchè è persona seria e preparata. Ho una grandissima stima del Capo dello Stato, ripeto che è invitato perennemente in Alto Adige. Se gradisse un invito specifico non ho nessun dubbio a proporglielo». Nei giorni scorsi il presidente della provincia aveva polemizzato con il Quirinale annunciando il suo rifiuto a festeggiare il 150/mo dell'Unità d'Italia. Durnwalder aveva poi parzialmente corretto il tiro spiegando che gli assessori e i consiglieri della provincia di Bolzano erano liberi di festeggiare, a titolo personale, l'anniversario unitario.

Lavorare anche la domenica gratifica il pil

di Marco Valerio Lo Prete - © - FOGLIO QUOTIDIANO
  
Intervista al ministro del Turismo sulla campagna del Foglio


Da oggi nell’agenda dell’esecutivo c’è anche la mini campagna fogliante per la liberalizzazione degli orari delle attività imprenditoriali e commerciali, a partire da domeniche e festività varie. O almeno per questo si batterà il ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla: “Mi farò portatrice nel governo di questa particolare proposta di cui si potrà giovare il settore del turismo e di conseguenza l’intera economia del paese”, dice al Foglio. La “stakanovista brianzola”, come MVB si è scherzosamente autodefinita ieri a margine dell’inaugurazione della Borsa italiana del Turismo a Milano, parte dal dettaglio ma poi dice di ritenere prioritario un discorso di metodo più generale: “L’enorme debito pubblico italiano limita gli strumenti a nostra disposizione per una politica economica di sviluppo, ma non impedisce di concepire politiche pro crescita. Dopo aver mantenuto il rigore sui conti pubblici, ora l’esecutivo, come spiegato da Berlusconi e Tremonti, ha iniziato ad attuare misure che saranno sicuramente efficaci per  creare ricchezza”.

Il riferimento è alla “frustata” all’economia proposta dal Cav., che però “frustata” sarebbe meglio non chiamarla: “Da animalista convinta – chiosa il ministro – suggerisco un’altra immagine: mettiamo il turbo al paese”. Vada per il turbo, ma la modifica dell’articolo 41 della Costituzione sulla libertà dell’iniziativa economica rischia di non generare un’accelerazione immediata nei mercati: “Quello resta un passo fondamentale perché rende evidente la necessità di riportare la nostra economia, anche dal punto di vista della crescita, alla pari con quelli pIù virtuosi.  Il 90 per cento delle nostre attività commerciali è costituito da piccole e medie imprese che di tutto hanno bisogno tranne che scontrarsi ogni giorno contro il muro della carta bollata”. Il ministro sta seguendo da vicino l’iter parlamentare del Codice del turismo che contiene soprattutto misure di semplificazione per l’apertura e la modifica di attività del settore.

D’altronde è dalla sua esperienza di imprenditrice di quarta generazione nel comparto dell’acciaio, oltre che di industriale nel settore alimentare, che Brambilla ha tratto da tempo una conclusione: “Licenze e permessi di competenza della Pubblica amministrazione dovrebbero seguire molto di più i tempi del mercato”. E ancora: “Restrizioni all’economia e aumento della produttività non vanno mai a braccetto”. Perciò, secondo il ministro, urgono liberalizzazioni a tutto campo.

“Vi sono esperienze estere che dimostrano come un’eccessiva regolamentazione delle attività commerciali sia un freno allo sviluppo oltre che un fattore negativo per le entrate dello stato”, osserva il ministro per il Turismo. Eppure molti commercianti dicono proprio di non voler “morire americani”: “E’ evidente che gli interessi della grande distribuzione e del cosiddetto ‘normal trade’ potrebbero apparire in contrasto – spiega Brambilla, che tra l’altro per quattro anni ha ricoperto il ruolo di presidente dei giovani imprenditori di Confcommercio – ma questi stessi interessi possono conciliarsi. Si prendano le tre principali motivazioni per le quali i turisti, non solo stranieri, decidono di visitare centri del nostro paese: due motivazioni su tre (‘mangiare e bere bene’ e ‘acquistare prodotti made in Italy’) lasciano chiaramente intendere che il commercio al dettaglio ha un mercato potenziale che difficilmente sarà scalfito dalla grande distribuzione”.

Quanto al turismo, anche il 2010 ha scontato un indebolimento della domanda interna, ma i dati segnalano già un più 5 per cento rispetto al 2009 per quanto riguarda l’afflusso di turisti stranieri nelle nostre città d’arte: “E le statistiche dicono che per ogni euro speso per dormire – nota MVB – quattro euro vengono spesi nelle attività commerciali circostanti”. Senza contare, passando ai grandi numeri, “che numerosi studi dimostrano come avere più tempo e più alternative a disposizione incentivi tutti i consumatori a spendere di più”. La domanda, in altre parole, non è fissata a priori, e quindi i negozi – restando aperti più a lungo o con maggiore flessibilità – vedrebbero aumentare i loro introiti, avendo così maggiori risorse per sostenere gli investimenti sulla forza lavoro che potrebbero divenire necessari. Ma secondo MVB non si tratta soltanto di pil e posti di lavoro: “E’ anche una questione culturale. Non ci possiamo fermare di fronte ai veti della burocrazia o a quelli di alcune categorie. Certo vi sono esigenze particolari da rispettare, ma se la direzione per creare e condividere più ricchezza è quella di una maggiore libertà di impresa, è su questa strada che dobbiamo muoverci”.

L’illusione del contagio arabo

  
Dentro la piazza yemenita


Sana’a, dal nostro inviato. C’è uno spettacolo insolito all’incrocio fra Sherre Sittin e Sherre Rabat. I negozi e i ristoranti aperti persino durante la preghiera del venerdì e sovranamente indifferenti ai tumulti delle settimane scorse oggi sono deserti e nascosti dalle imposte di metallo. Il passaparola magico che regola la vita della capitale dello Yemen ha messo in guardia: è in marcia una corteo di protesta, e questa volta sarà differente, questa volta sarà come nelle città a sud di Aden e Taizz, dove da due giorni si contano i primi morti. Si salvi chi può, pure i venditori ambulanti si dileguano. Quasi subito, dall’altro lato del lungo rettilineo, si materializzano i più feroci oppositori dei manifestanti, che non sono gli agenti della polizia, ma i picchiatori a noleggio del presidente Ali Abdullah Saleh. E dietro i picchiatori i fuoristrada che trasportano i kit per trasformare chiunque in un controrivoluzionario fatto e finito su due piedi, le bandiere nazionali da sventolare, i poster con la faccia severa del presidente Ali Abdullah Saleh da innalzare e le mazze da distribuire e adoperare. I veicoli di lusso sono gli stessi che a operazione compiuta portano via in fretta – ma dove? – i capi squadra più importanti.

La disoccupazione al 40 per cento
ha dato loro un bel mestiere: squadristi a cottimo in favore del regime trentennale del presidente Saleh. Sono una legione compatta di straccioni in età militare, ma c’è pure il teppistello di dieci anni con il bastone e il leone sdentato di sessant’anni che ancora se la cava a menare le mani. Sono la brigata mobile del governo yemenita, senza nulla da perdere, pagata sottobanco per sbrigare l’opera di repressione che invece il governo non può più assolvere senza gettare alle ortiche le apparenze – e le apparenze da salvare sono importanti, c’è in ballo un viaggio del presidente a Washington il prossimo mese, e la settimana scorsa è arrivata la prima tranche di un finanziamento da 70 milioni di dollari contro i terroristi di al Qaida.

Sono la versione yemenita dei cammellieri che due settimane fa hanno attaccato a frustate i manifestanti egiziani in piazza al Cairo, ma sono stati più furbi e hanno occupato preventivamente la piazza Tahrir di Sana’a – si chiama così anche qui – per evitare che diventasse il centro simbolico dell’opposizione. Dovunque ci sia una protesta, appaiono loro a spegnerla con la violenza.
Questa volta però l’operazione è più difficile. I manifestanti sono una folla, riempiono la strada per più di un chilometro, sono in maggioranza studenti universitari e per un giorno hanno smesso quell’aria che fa quasi tenerezza di chi crede – come gli studenti di tutto il mondo – di essere qualcosa di più e invece è qualcosa di meno. In mezzo a loro c’è chi estrae un’arma e spara in aria tra le grida di entusiasmo degli altri. Per cinque settimane – appena è arrivata la notizia della ribellione tunisina – hanno manifestato pacificamente in giro per Sana’a e sono stati zittiti con le maniere forti. Adesso occupano tutta un’arteria vitale della città e scambiano colpi furiosi con gli avversari. Anche dall’altra parte si ascoltano pochi spari, e sarà così ogni ora durante tutta la durata degli scontri, perché le armi in Yemen circolano liberamente. Ma il grosso si fa a pietrate. Sassi che volano dappertutto, in lunghe parabole arcuate e lente o in tiri diretti e insidiosi, sfondano quello che è stato incautamente lasciato all’aperto e fanno sbandare a turno e più volte i due schieramenti. Lontana, dietro i tifosi del governo, la polizia osserva senza intervenire. E’ come se ci fosse un patto sottile non scritto e la violenza piena fosse per ora trattenuta, perché le conseguenze sarebbero troppo estreme.

Per ora, anche se tutti promettono altre giornate di violenza, la rivolta in Yemen impallidisce di fronte a quello che già sta succedendo in Libia, dove i morti negli scontri sono sei, e nel Bahrein. Dalla capitale Manama l’inviato del New York Times, Nicholas Kristof, scrive di un’operazione brutale dell’esercito per sgombrare la centrale piazza delle Perle trasformata in accampamento. I soldati avrebbero giustiziato a sangue freddo con colpi alla testa alcuni manifestanti, avrebbero impedito i soccorsi alle ambulanze e avrebbero bloccato tutti i giornalisti all’aeroporto, per levarsi di torno i testimoni stranieri.
La relativa facilità del cambio di regime in Tunisia è stata illusoria. Durante i diciotto giorni dell’Egitto ci sono stati trecento morti, anche se la vastità delle folle in rivolta e la tenacia disarmata di piazza Tahrir hanno fatto passare in secondo piano il sangue. In altri paesi, dove la sicurezza è più aggressiva e il numero dei manifestanti è sparuto, il paradigma della rivoluzione araba sta diventando un altro. Sul contagio arabo incombe non lo spirito dell’89, quando tutti i paesi dell’area sovietica si liberarono quasi assieme del giogo di Mosca, ma piuttosto il ricordo dell’Iraq nel 1991, quando, subito dopo la sconfitta nella guerra del Golfo, gli sciiti tentarono di ribellarsi a Saddam Hussein. Credevano, ma la loro era una percezione errata, che il regime dopo la guerra disastrosa con gli americani fosse più vulnerabile, e credevano che la sollevazione popolare avesse i numeri per farcela. Ma i rapporti di forza non mentono mai e la repressione militare baathista si chiuse su di loro con tutta la spietata efficienza che non aveva mostrato davanti alle divisioni del generale Norman Schwarzkopf. Il senso di marea inevitabile, di un popolo che cresce e con solennità prevale sulle difese del regime, è potentissimo quando c’è. Ma quando non c’è, quando mancano i numeri e i regimi hanno studiato in fretta la lezione di Mubarak e si sono ripromessi di non essere così deboli, cortei di manifestanti e squadre di controrivoluzionari sono intrappolati in un’intifada micidiale.

Google diventa più "social" Un solo motore per tutte le reti

di: Tiziano Toniutti - La Repubblica

Big G annuncia in tre fasi le nuove impostazioni del suo motore. Si potranno ottenere risultati basati sui propri contatti online, e condividere ricerche e opinioni. Dopo il primo annuncio ne seguiranno altri, con un obiettivo dichiarato: mettere una prima, vera bandiera nel mondo delle reti sociali 

MOUNTAIN VIEW - Grandi manovre "social" in casa Google, con almeno due obiettivi, di cui uno non ufficiale. Il primo, tecnico e di assoluta utilità: catalogare ordinatamente i contenuti che gli utenti condividono sul web. Il secondo, taciuto ma evidente, ritagliarsi un vero ruolo nel ribollente mare delle reti sociali, in cui Big G finora ha mantenuto un profilo basso (successo di Orkut in Sudamerica a parte). E terzo, cifre di crescita alla mano, non dichiarato ma scontato: far tornare il nome di Google agli antichi splendori nel firmamento del web, in cui ora brilla più di ogni altra la stella di Facebook.

Mountain View in realtà non compete direttamente sul territorio dei social network, per lo meno non ancora. Ha una funzione diversa e propone servizi fortemente connotati. Per il momento ha scelto non di contrastare il fenomeno "social", ma di utilizzare appieno la sua potenza tecnologica per circondare gli avversari. E fare in modo che il successo delle reti sociali sia anche un elemento di crescita per Google. Non è ancora tempo di "Google Me 1", quindi. Ma le novità introdotte oggi sono, nei piani dell'azienda, solo la prima fase di una serie di manovre che renderanno l'ecosistema di Google più ricco dell'attuale, soprattutto in chiave sociale.

Le nuove funzionalità. Già oggi Google offre delle specificità
nella ricerca "social". Sulla versione italiana del motore è da tempo possibile cercare attraverso i contenuti postati dagli utenti 2, relativi alla propria chiave di ricerca. Google spinge queste possibilità in avanti, al momento però solo su Google.com, la versione americana. "Ora Google mostra tra i risultati social anche quello che gli utenti condividono, non solo il contenuto che caricano direttamente", spiega Mike Cassidy, product manager del motore di ricerca. "Se ad esempio si cerca un video di Obama al Daily Show, e qualcuno tra i vostri contatti social ha condiviso quel video, Google lo restituirà tra i risultati di ricerca", spiega Cassidy. E per la precisione, lo restituisce in forma di annotazione, in calce al risultato rilevante per quel particolare video, completando la risposta. Ma arriveranno altre novità: già ora gli utenti Google che si collegano a Google.com noteranno una nuova barra di navigazione in alto sulla pagina, che per ora contiene solo il nome dell'utente e qualche opzione.

Annotazioni sociali. In apparenza un piccolo cambiamento, ma con un obiettivo ambizioso: elevare la percezione qualitativa dell'esperienza di ricerca, fornendo consigli "firmati" da chi appartiene alla propria rete di contatto. Un livello di dettaglio che nell'ambiente di un social network non è realizzabile, perché troppo dispersivo, ma che la tecnologia di Google da oggi è in grado di amministrare. Google di fatto "avvolge" il fiume dei social network, e ne diventa gli argini e la foce. Al momento, le reti monitorabili da Google Social sono Twitter, Flickr e Quora. Facebook per ora non c'è, anche se Bing di Microsoft offre una funzione di monitoraggio dei "mi piace". Evidentemente l'integrazione con Twitter e Flickr è però prioritaria per Google, anche alla luce dell'utilizzo combinato di quei particolari network e delle funzioni di Google durante le ribellioni in Nordafrica.

Un occhio alla privacy. L'altro aggiornamento importante di Google Social riguarda il modo in cui il motore di ricerca interagisce con le reti sociali. E' possibile rendere private le proprie connessioni, e il sistema è in grado di riconoscere con una certa precisione l'identità dell'utente su altri network, e collegarle all'account Google, che funziona da vero e proprio "concierge" del web.