La Missione è quella di creare un'associazione tra la Comunicazione e la Cultura. Spesso questi due ambiti non si incontrano (il comunicatore non fa vera cultura e l'accademico non sa comunicare in modo efficace). Noi vorremmo far incrociare i due binari per portarli a formarne uno unico.

Vorremmo stimolare l'aspetto critico del fruitore, per comunicare cultura e per acculturare la comunicazione.

Questo Blog vuol essere un punto di riferimento per articoli d'informazione giornalistica-scientifico-culturale-economica.

Qui potrete trovare ogni tipo d'informazione e saremo lieti di stimolare un sano e doveroso dibattito per ogni singolo articolo, con il fine d'incrociare nel massimo rispetto di pareri ed opinioni diversi tra loro, per giungere così ad una proposta d'incontro tra i molteplici aspetti di una società multiculturale

sabato 24 settembre 2011

La spietata caccia a Minzolini, una vergogna opportunista

da: Il Foglio
Al direttore - I vertici della Rai hanno censurato Minzolini del Tg1 perché continua a esternare fuori dal coro. “Impari a tacere” gli hanno detto. Già pregustano la vittoria della loro gioiosa macchina da guerra di occhettiana memoria.
I direttori di giornale non devono tacere, devono parlare, è il loro mestiere. La caccia a Minzolini ha qualcosa di straordinariamente losco. E’ sistematica, spietata, conta su qualche suo errore o pasticcio per trasformarlo in capestro, e strangolare in lui, che fa il suo mestiere nelle condizioni date dalla politica italiana e dalla situazione della Rai, l’editorialista, soprattutto l’editorialista. Minzolini è stato il diavolo e il pupillo dell’establishment editoriale e politico.

Il settimanalista Claudio Rinaldi
lo adorava e lo promuoveva come grande cacciatore di notizie, e come analista ha goduto giustamente della fiducia, mista a inquietudine e paura, delle sue fonti, comprese rilevanti fonti di sinistra. Da quando si è fatto berlusconiano e ha preso una responsabilità direttoriale che è sempre stata politica, al Tg1, lo fanno a pezzi. E’ una delle grandi vergogne opportuniste della sinistra tribunizia e forcaiola.

venerdì 23 settembre 2011

Sla, la speranza da un gene

da:Biomedi@

Individuato il gene responsabile della Sla familiare e sporadica. La notizia è stata resa nota ieri dai ricercatori del centro Sla delle Molinette di Torino, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dell’Università di Cagliari, che, lavorando con un gruppo del laboratorio di neurogenetica del National institute of health di Bethesda, negli Usa, hanno analizzato su 268 casi familiari di Sla americani, tedeschi e italiani e 402 casi familiari e sporadici di Sla finlandesi e sono arrivati a questo importante passo. Che, occorre dirlo con chiarezza, non porterà alla sconfitta immediata della malattia, ma di è di certo un importante passo avanti. Era da circa dieci anni che i laboratori di tutto il mondo stavano tentando di identificare il gene di cui era nota solo la localizzazione a livello del cromosoma 9. Lo studio è stato pubblicato dopo appena due settimane sulla rivista «Neuron».
 
La Sla in Italia colpisce circa 5000 persone e secondo questo studio, finanziato per la parte italiana dalla Federazione italiana gioco calcio (Figc), dalla Fondazione Vialli e Mauro per la Sla e dal ministero della Salute, il 38% dei casi familiari e circa il 20% dei casi sporadici erano portatori di un’alterazione di uno specifico gene (lo c9orf72). Questa scoperta, hanno spiegato i ricercatori, rappresenta un importante progresso verso l’identificazione della causa della Sla e della sua terapia, soprattutto perché permette di spiegare la causa della Sla in un’elevata percentuale di casi familiari e sporadici.
 
«Pur non essendo ancora noti i dettagli, la scoperta di alterazioni del gene c9orf72 potrebbe rappresentare un passo in avanti per la conoscenza delle cause della sclerosi laterale amiotrofica – commenta Giulio Pompilio, direttore scientifico di Arisla, l’agenzia di ricerca italiana sulla Sla – poiché coinvolge un elevato numero di pazienti affetti da Sla sporadica ed ereditaria».
 
Tra i progetti più innovativi degli otto finanziati da Arilsla, che martedì sarà a convengo a Milano per presentarli, c’è quello del dipartimento di Scienze neurologiche del Policlinico di Milano dove da questa estate si sta conducendo uno studio complesso, della durata di tre anni, che vuole tentare di «ringiovanire» le cellule staminali per combattere la Sla; 263mila euro il finanziamento Arisla. Lo porta avanti Giulio Comi, vice direttore del centro per le malattie neuromuscolari e neurodegenerative «Dino Ferrari» di Milano e professore associato di neurologia, sempre a Milano.

«Punto di partenza – spiega Comi – sono le cellule staminali pluripotenti indotte, ovvero cellule adulte che vengono riprogrammate in una sorta di processo all’indietro allo stato embrionale. Questo ci consente ovviamente di superare i limiti etici».
 
Due gli obiettivi della ricerca: «Da una parte studiare in laboratorio il processo degenerativo del motoneurone nella Sla. L’uso di staminali pluripotenti indotte permetterà infatti di ricreare in laboratorio i motoneuroni malati prelevandoli direttamente da pazienti affetti da Sla. In questo modo sarà possibile studiare per la prima volta in laboratorio cosa succede alle cellule sofferenti nella Sla. Dall’altra vogliamo valutare se questo tipo di staminali siano in grado di aiutare la sopravvivenza dei motoneuroni del paziente».

Tutti nudi davanti a mr. Facebook

da: Il Foglio

Con Timeline Zuckerberg realizza il sogno dei pubblicitari: sapere tutto di noi e dei nostri gusti.

Con "Timeline", Facebook fa un cambio radicale. 
Al posto della bacheca, la faccia con cui un utente sceglieva di rapportarsi ai suoi amici, c'è un flusso biografico, una sorta di capsula del tempo in grado di contenere, in un paio di scroll, tutta la vita di un iscritto al social network. Nessuno è obbligato a completarlo in tutti i dettagli: è la storia della tua vita, te la gestisci come meglio credi. Puoi glissare sulle ex fidanzate che non hai piacere a ricordare, ma perché non mettere le tue foto da bambino, dei primi saggi estivi e della gita con quei matti della 5 B? Per rendere la cosa più allettante, gli uomini di Mark Zuckerberg hanno pensato a una corona di nuove applicazioni che pian piano faranno scivolare anche i più restii dalla parte di "Timeline".

Tutto si farà sempre di più dentro Facebook e tutto sarà sempre più a viso scoperto. Con "Timeline", infatti, mantenere l'anonimato sarà sempre meno invitante (e sempre più complicato). Cosa ci guadagna Facebook, a parte il deposito dei nostri ricordi sui loro server? Scandagliando la nostra storia, l'evoluzione dei nostri gusti e delle nostre relazioni con cose e persone, potrà farci bersagliare da pubblicità che non potremo non cliccare.

Zuckerberg avrà così realizzato l'oggetto del desiderio dei pubblicitari: un sito internet che attira a sé, per frazioni di tempo molto significative, degli utenti di cui conosce anche il numero dei capelli. Un paradiso per chi, di mestiere, passa le giornate a fare reverse engineering del nostro cervello, per capire cosa può piacerci o quali nuovi bisogni potremmo scoprire di avere (Apple docet). Nel sogno del social network di vetro, in cui resistono giusto i muri di cinta che lasciano fuori i "non amici", celarsi dietro a una maschera o a un senal diventa sempre meno conveniente. Sarà sempre più comodo prendere la via maestra. Alla fine ci ritroveremo nudi di fronte a Zuckerberg, ma lui saprà darci proprio i vestiti che volevamo.

venerdì 16 settembre 2011

Il Canada e il piano scivoloso dell'aborto

da: Zenit
  La sentenza di una Corte superiore conferma l'"aborto al quarto trimestre"

Ad Edmonton, in Canada, la giudice Joanne Veit, della Court of Queens' Bench della provincia dell'Alberta, ha pronunciato venerdì 9 settembre un verdetto che conferma tutti i peggiori timori dei movimenti per la vita, ovvero che la legalizzazione dell'aborto e l'assuefazione alla pratica portano inevitabilmente all'accettazione dell'infanticidio. La giudice Veit ha condannato una giovane infanticida di Wetaskiwin (una cittadina a sud del capoluogo Edmonton), la venticinquenne Katrina Effert, a tre anni con la sospensione della pena. La Effert dovrà seguire però una consulenza psicologica, scontare inoltre 100 ore di lavoro socialmente utili ed infine informare le autorità giudiziarie se rimarrà nuovamente incinta.

All'età di 19 anni, la Effert aveva strangolato con un pezzo della sua biancheria intima il 13 aprile del 2005 il maschietto che aveva appena partorito in segreto nel bagno della casa dei suoi genitori e poi - dopo alcune ore - scaraventato il corpicino nel giardino di un vicino. Anche se è ancora in corso un processo per lo smaltimento illecito di resti umani, il cui verdetto verrà emesso proprio in questi giorni, tutto indica che dopo un lungo iter giudiziario, composto da vari processi ed appelli, e dopo quasi otto mesi di custodia preventiva, la giovane non dovrà più scontare alcun giorno dietro le sbarre per aver ucciso il suo bambino. Come motivazione per il suo gesto, la Effert ha spiegato di aver ucciso il piccolo per evitare che i suoi genitori, i quali ignoravano che la loro figlia fosse incinta, sentissero i suoi vagiti o pianti.

Come ricordano le fonti, la Effert era stata condannata una prima volta da una giuria per omicidio nel 2006, ma la sentenza fu annullata in appello per errori. Nel 2009, un'altra giuria l'aveva condannata all'ergastolo per omicidio di secondo grado, ma nel maggio scorso anche questo verdetto è stato rovesciato in appello perché ritenuto "irragionevole" (The Edmonton Sun, 4 maggio). In quest'ultima occasione, la Corte d'appello dell'Alberta aveva sostituito l'accusa di omicidio con quella di infanticidio e criticato il pubblico ministero di essere stato "troppo zelante".

A preoccupare e sconvolgere i difensori della vita è proprio l'argomentazione della giudice Veit, la quale ha ritenuto che l'assenza di una legge sull'aborto in Canada indicherebbe che la popolazione "simpatizzasse" con la madre. "Mentre molti canadesi indubbiamente considerano l'aborto come una soluzione certo non ideale al sesso non protetto e alla gravidanza indesiderata, in generale comprendono, accettano e simpatizzano con le gravose fatiche che una gravidanza e un parto esigono dalle madri, soprattutto dalle madri prive di sostegno", ha scritto la Veit nella sentenza (CBC News, 9 settembre). "Naturalmente, i canadesi sono addolorati per la morte di un neonato, specialmente se avviene per mano della madre del neonato, ma i canadesi piangono anche per la madre", ha continuato.

Nel prendere la sua decisione, la Veit non ha avuto dubbi. Al momento dei fatti, l'infanticida aveva la "mente turbata". "Io sono del parere che queste azioni (...) sono la prova dolorosa di un comportamento irrazionale da parte della signora Effert come conseguenza della sua mente turbata", ha ribadito (The Edmonton Sun, 9 settembre). "In sintesi, questo è un caso classico di infanticidio - l'uccisione di un bambino neonato o appena nato dopo una gravidanza nascosta da una madre che era sola e senza sostegno", ha concluso la giudice.
Con la sua sentenza, il tribunale ha seguito dunque la linea di difesa tracciata dall'avvocato della giovane, Peter Royal. "Ciò di cui ha bisogno questa donna è sostegno e comprensione, non di essere gettata in carcere", ha spiegato in aula (The Edmonton Sun, 8 settembre). Già nel 2009, Royal aveva sostenuto la tesi che quello della Effert era un "classico caso da manuale" di infanticidio, che stando al Codice penale consiste nel provocare la morte di un "neonato" in un momento in cui la mente della madre è "turbata", perché "non completamente recuperata dagli effetti del parto" o "dall'effetto dell'allattamento" (The National Post, 23 giugno 2009).

La domanda è però se al momento dei fatti la giovane donna fosse veramente presa dal panico, come ha affermato durante il processo. Se era infatti preparata al parto e durante la sua gravidanza avrebbe anche cercato di provocare un aborto spontaneo fumando e bevendo. Ad aggravare la sua posizione era anche il fatto che durante i primi interrogatori ha mentito alla polizia, dicendo che era ancora vergine, e che ha cercato di coinvolgere il padre del bambino.

Il caso ha richiamato in Canada l'attenzione sulla legge sull'infanticidio risalente al lontano 1948 e che "si fonda sul discutibile presupposto che l'esperienza del parto riduca contemporaneamente la capacità morale e la responsabilità di una donna", come ha scritto nel 1991 in un rapporto l'attuale giudice capo della Corte suprema canadese, Beverley McLachlin (The National Post, idem). Infatti, secondo uno studio del 2006 condotto dall'Università di Toronto e basato su più di 100 casi di infanticidio, nella maggioranza dei casi le donne coinvolte avevano agito in modo "freddo" e "calcolato", coprendo ad esempio consapevolmente le loro azioni ed ostacolando inoltre con astuzia le indagini.

Per la Abortion Rights Coalition of Canada (ARCC), guidata da Joyce Arthur, la sentenza pronunciata dalla giudice Veit è soddisfacente. Nella sua pagina su Facebook, l'organismo pro aborto ha inserito infatti il link ad un articolo sul caso, accompagnando la notizia con un commento più che eloquente. "Una situazione tragica, ma certo ci sono ragioni inoppugnabili per ritenere l'infanticidio un crimine inferiore all'omicidio", si legge.
A segnalare il commento è l'attivista pro vita Jonathon Van Maren sul sito del Canadian Centre for Bio-Ethical Reform, UnmaskingChoice.ca (12 settembre). Per Van Maren, il caso dimostra che per alcuni l'infanticidio non è altro che "un aborto molto, molto tardivo". "La depressione post-partum (...) serve come scusa per strangolare il neonato. Se riesci a dimostrare che eri depressa, uccidere tuo figlio è qualcosa di comprensibile e se ascolti questa giudice, accettabile". Per questo motivo - conclude l'autore -, la sentenza del 9 settembre dovrebbe servire da avvertimento per i canadesi.

Come ricorda il sito LifeSiteNews.com (12 settembre), da anni ormai i movimenti pro vita avvertono infatti che il diffondersi della mentalità abortista sta spalancando la porta ad una maggiore accettazione sociale dell'infanticidio, cominciando dall'eutanasia di neonati con difetti genetici o con mali incurabili, come d'altronde avviene già in Olanda. Del resto, per filosofi come l'australiano Peter Singer, che insegna alla prestigiosa Princeton University (USA), "non c'è una netta distinzione tra il feto e il bambino neonato".

Pungente e allo stesso tempo amara è la reazione di Wesley J. Smith nel suo blog sul sito della rivista First Things, Secondhand Smoke (13 settembre). "Così l'aborto genera simpatia per l'infanticidio in Canada", deve constatare l'autore, noto soprattutto come oppositore all'eutanasia e al suicidio assistito. "Eppure, se lei (Katrina Effert, ndr) avesse strangolato un cucciolo, sappiamo benissimo che non avrebbe suscitato alcuna simpatia", osserva in modo provocatorio.

A criticare la sentenza è stato anche il noto commentatore Mark Steyn in uno dei suoi ultimi post sul sito della National Review Online (13 settembre), intitolato "Aborto al quarto trimestre". "Così un giudice di una Corte superiore in una giurisdizione relativamente civilizzata è felice di estendere i principi sottostanti all'aborto legalizzato per mitigare l'uccisione di una persona giuridica - vale a dire qualcuno che è riuscito a raggiungere lo status postfetale". Per Steyn, autore di libri come "America Alone: The End of the World as We Know It", la Effert non era ad esempio una persona "senza sostegno": viveva tranquillamente a casa dei suoi genitori, "che le fornivano vitto ed alloggio". "Quanto agevolmente gli abili eufemismi 'accettano, simpatizzano ... gravose fatiche' rendono scivoloso il piano inclinato", conclude il critico di origini canadesi.

Altrettanto eloquenti sono le osservazioni di Susan Martinuk sul Calgary Herald del 15 settembre. "La società è ancora inorridita dalle azioni di Katrina Effert e l'accettazione legale di questi eventi contribuisce solo ad un ulteriore abbrutimento della nostra cultura", scrive l'opinionista, la quale non risparmia la giudice Veit. Come ribadisce, "l'ipotesi che i canadesi accettino e simpatizzino con l'aborto solo perché accettano lo status quo di non avere una legge federale sull'aborto è palesemente falsa".

Infatti un sondaggio del 2009, realizzato dalla società demoscopica Angus Reid Strategies, rivela che meno della metà della popolazione canadese - il 46% - ritiene che l'aborto dovrebbe essere autorizzato in tutte le situazioni o casi. Inoltre, ben il 92% dei canadesi non sa che nel suo Paese l'aborto è permesso per tutta la durata della gravidanza, fino al momento del parto. Per la Martinuk, sembra dunque che la Veit appartenga alla maggioranza "non informata" della popolazione canadese...

giovedì 15 settembre 2011

Cybercrime: il caso dell'attacco subito dalla Polizia

da FERPI - Luca Poma

Mentre le città andavano svuotandosi per l’esodo estivo, un noto gruppo di hacker compiva la più eclatante violazione informatica avvenuta in Italia da che esiste Internet, sottraendo documenti riservati dai data base della Polizia. Luca Poma racconta la cronaca dei fatti e fornisce l’analisi di una crisi gestita maldestramente.

Nella notte tra il 24 ed il 25 luglio 2011, il gruppo di hackers internazionale denominato Anonymous – già agli onori della cronaca per l’attacco contro i siti di Scientology, rivendicato in nome dello spirito libertario del web e contro i metodi massimalisti e di censura praticati da quell’organizzazione (1), e per i più celebri interventi in difesa di Wikileaks – hanno forzato i server della Polizia italiana, e per la precisione del CNAIPIC, il Centro Nazionale Italiano per la Protezione delle Infrastrutture Critiche, la sezione della Polizia di Stato preposta alla difesa di tutti i “nodi” informatici cruciali delle istituzioni della penisola. Come dire: un gruppo di ragazzi sorvegliati a vista svaligia la casa superprotetta del Giudice preposto a controllarli mentre sono agli arresti domiciliari.

Questo discusso gruppo di hackers aveva già forzato in una precedente occasione, a inizi 2011, le piattaforme web del Governo Italiano, per protesta “politica” contro lo stile di governance del Premier Berlusconi, mandando in tilt nel corso della cosiddetta Operazione Italia i siti di Palazzo Chigi e di vari Ministeri. All’epoca un Dirigente della Polizia Postale, il corpo di vigilanza italiano contro gli abusi informatici, da cui dipende anche il CNAIPIC, aveva dichiarato: “Questo genere di azioni difficilmente si può contrastare perché provengono da più computer sparsi non solo in Italia, ma anche all’estero”. Gli Anonymous avevano risposto con un breve ma per certi versi fascinoso comunicato stampa: “Noi non amiamo la violenza, noi non vogliamo la guerra, noi non cerchiamo di creare disordini. Noi siamo i protettori umili e innumerevoli e della libertà di parola. Noi siamo la massa critica”.

Ma la beffa appare ancor più clamorosa di quella di inizi anno, se consideriamo che non più di un mese prima, i cyber-detective del Ministero degli Interni avevano effettuato alcuni arresti, dichiarando pomposamente alla stampa: “Decapitati i vertici italiani di Anonymous”. Gli stessi hackers formalmente “decapitati” che poche settimane dopo hanno inferto un durissimo colpo di credibilità al CNAIPIC, il corpo scelto della Polizia Postale, i guardiani della sicurezza informatica di tutti noi. Peraltro, come fosse possibile “decapitare” un’organizzazione non verticistica e che ha in una struttura “a rete” il suo stesso DNA, era poco chiaro a qualunque addetto ai lavori del settore, ma si sa: la comunicazione si muove sui binari dello “scoop” e raramente su quelli dell’autenticità.

L’esperto informatico Roberto Preatoni ha dichiarato in un’intervista al cliccatissimo quotidiano on-line Affari Italiani: “…Non ho idea di come abbiano fatto, non mi serve saperlo: c’è sempre stato un modo e sempre ci sarà. E’ inutile: da un lato ci sono decine di tecnici che si arrovellano per cercare di mettere in sicurezza le infrastrutture critiche, dall’altro c’è sempre un singolo creativo che ragionando in maniera non lineare riesce a trovare un modo per metterli nel sacco. E se il modo non c’è, lo inventa, non c’è verso. Il creativo che ragiona in maniera non lineare si chiama hacker, per l’appunto. Non esiste definizione migliore”.

Gli Anonymous hanno dichiarato su uno dei loro blog ufficiali: “Questa corrotta organizzazione (il CNAIPIC, ndr.) ha raccolto del materiale sequestrato dai computer di professionisti della sicurezza e lo ha utilizzato negli anni per condurre operazioni illegali in accordo con servizi segreti stranieri, invece che utilizzarlo per condurre investigazioni lecite”. Poco importa che gli stessi Anonymous due giorni dopo i fatti abbiano preso le distanze dall’accaduto, attribuendo la forzatura dei data-base della Polizia ad un altro gruppo di hackers, i Nkwt Load: ciò che conta è che ben 8 Giga di file riservati siano stati sottratti da depositi informatici considerati super-sicuri e con scioltezza pubblicati in rete, su tre distinti siti, disponibili alla lettura da parte di chiunque si sia preso la briga in quelle ore di downlodarne con sollecitudine il contenuto. Se non è crisi questa…

Come ha risposto il Ministero dell’Interno alla crisi? Sollecitato da Daniele Tigli, un collega di Faenza particolarmente attento a tutto ciò che è oltre i confini del web tradizionalmente inteso, ho preso contatto con l’Ufficio stampa della Polizia poche ore dopo la pubblicazione della notizia on-line. Mi hanno rassicurato che “un comunicato stampa stava per essere diramato” (2), e in effetti l’ho trovato nella mia casella di posta poche ore dopo. Lo sconcerto è stato però grande quando ho aperto il file, che recitava (riporto verbatim): “In relazione alla divulgazione in Rete di documenti sottratti dai suoi sistemi informatici, la Polizia delle Comunicazioni ha in corso attente verifiche tecniche mirate ad accertare la reale portata degli eventi. Di fatto, risultano pubblicati online contenuti apparentemente riconducibili al CNAIPIC della stessa Polizia delle Comunicazioni sulla cui autenticità sono in corso accertamenti”. Fine del comunicato. Due frasi. Nessun dettaglio. Nessun virgolettato. Nessuna analisi nel merito della tipologia di file trafugati. Nessuna dichiarazione del Ministro su quella che appare la più eclatante violazione informatica mai avvenuta in Italia da quando esiste la rete internet.

Mentre realizzavo un servizio sull’accaduto (3) per la SBS (4), con la quale collaboro, ho chiesto all’Ufficio Stampa del Ministero di tenermi sollecitamente al corrente sugli sviluppi della questione. A parte una bulimica e imbarazzante quantità di comunicati stampa sulla situazione del traffico sulle autostrade italiane prese d’assalto dai vacanzieri, non è pervenuta nei giorni successivi nella mia casella e-mail alcuna news di aggiornamento su questo delicato dossier, e alla data di chiusura di questo articolo sul sito ufficiale della Polizia di Stato non risulta pubblicato alcunché al riguardo. Anzi, con mio stupore, ho anche verificato che anche il laconico – e ben poco utile – comunicato del 25 luglio il cui testo vi ho riportato sopra, non risulta pubblicato sulla media room della Polizia (5): o non vi è mai stato, o è stato rimosso…

È appena utile evidenziare che – con tutto il rispetto per la necessaria riservatezza delle indagini – sono state violate dagli addetti alla comunicazione della Polizia le più elementari regole della gestione di casi di crisi:
  • non è stata diramata un’informazione immediata, costante e completa;
  • non sono state individuate e rese note – pur nel rispetto delle procedure di sicurezza necessarie in questi casi – le criticità che hanno portato alla crisi;
  • non sono stati individuati e resi noti eventuali profili di responsabilità;
  • non sono state illustrate anche sommariamente le innovazioni alle procedure che impediranno il ripetersi di episodi del genere in futuro, aspetti che riguardano – anche – la sicurezza di tutti noi;
  • nessun portavoce ufficiale (il Ministro o un suo autorevole delegato) ha preso la parola per rassicurare tutti i pubblici coinvolti circa il buon esito della crisi.
A oltre 15 giorni dall’evento, da un corpo altamente specializzato come la Polizia Postale ci si aspettava certamente di più, se non altro sotto l’aspetto del flusso informativo. Ma più ancora, stupisce l’assoluta assenza d’iniziativa politica dei vertici del dicastero degli Interni e del Governo, una volta ancora apparentemente “distante” dai problemi concreti della vita dei cittadini. Con decine di milioni di connessioni web attive in Italia, il profilo della sicurezza dei data-base informatici non mi sembra affatto una issue da trascurare o sottostimare.

(1) Vedasi il mio articolo “Scientology: critiche ragionate alla strategia di comunicazione” pubblicato su Ferpi News all’indirizzo internet http://www.ferpi.it/ferpi/novita/notizie_rp/internazionale/scientology-critiche-ragionate-alle-strategie-di-comunicazione/notizia_rp/43153/7
(2) Il mio contatto con il Ministero risale al 25/07/11, h 16:00 circa
(3) Downlodabile su http://www.sbs.com.au/yourlanguage/italian/highlight/page/id/179547/t/Hackers-at-work
(4) La radio di Stato Australiana, il più importante network nazionale che trasmette – in più lingue – anche in tutta l’Oceania
(5) http://www.poliziadistato.it/articolo/183-Ufficio_stampa/


Public Diplomacy: il ruolo dei social media

da: FERPI

Nel solco delle precedenti attività dedicate alla Public Diplomacy, un workshop organizzato da Ferpi e dal Ministero degli Affari Esteri. Mark Belinsky ed Elizabeth Ghormley affiancheranno Toni Muzi Falconi per una due giorni dedicata alla digital revolution.

Quarantuno giovani funzionari a confronto con due giovani protagonisti della digital devolution. Per il terzo anno consecutivo si rinnova la collaborazione tra Ferpi e l’Istituto Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri con la sesta edizione del corso in Public Diplomacy.

Docente Toni Muzi Falconi di Ferpi, professionista con 50 anni di carriera alle spalle e docente alla New York University, alla LUMSA, la LUISS e a La Sapienza di Roma.

Ad affiancarlo, due giovanissimi ospiti d’oltreoceano: Mark Belinsky ed Elizabeth Ghormley, rispettivamente fondatore e direttore sviluppo di Digital Democracy, no profit americana che opera in tutto il mondo per ‘educare al digitale’, ‘organizzare il digitale’ e ‘governare il digitale’ con l’obiettivo di abilitare le comunità marginalizzate ad appropriarsi degli strumenti digitali per costruirsi un futuro migliore.

Due sessioni, giovedì 15 e venerdì 16 settembre, in cui si affronteranno le basi della diplomazia pubblica – l’insieme di attività di relazione e di comunicazione attuate dalle istituzioni e organizzazioni pubbliche, private e sociali per dialogare con i cittadini di altri paesi, sia all’esterno dei propri confini ma anche all’interno (come accade, ad esempio, con le sempre più numerose comunità migranti).

Negli USA, la dottrina Obama – stare dietro le quinte stimolando alleanze, di cui un esempio è il recente caso libico – obbedisce alla politica estera prevalente oggi al Dipartimento di Stato: i diplomatici devono (anche) essere public diplomats. E anche il nostro paese si avvia nella direzione di integrare la public diplomacy nella diplomazia tradizionale.

La rivoluzione digitale – cellulari (5 miliardi nel prossimo ottobre), web e social network – ha cambiato radicalmente il mondo, un mondo in cui metà della popolazione è sotto i 30 anni. Più recentemente, la rivoluzione digitale si è resa esplicita nel mondo arabo, dove è stata fonte di ispirazione e di mobilitazione per le agitazioni popolari e fonte di dibattito tra gli esperti su quale ruolo avesse realmente svolto nei tanti disordini in corso. Come afferma il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, la tecnologia può essere una piattaforma per la diplomazia, all’interno "dell’arte di governo del XXI secolo”.

Due giorni intensi in cui, partendo dall’approfondimento del concetto di public diplomacy, con i le idee di soft e hard power, si discuterà delle tre diverse scuole di pensiero, del ruolo riflettivo ed educativo dei nuovi diplomatici, fino ad analizzare la diplomazia nel nuovo ambiente digitale e le problematiche ad esso connesse, esaminando casi operativi di digital governance in Nord Africa, Medio Oriente, Haiti e Georgia.

A conclusione della prima sessione del workshop, sempre presso l’Istituto “Mario Toscano”, giovedì 15 settembre, si terrà un aperitivo, cui parteciperanno Patrizia Rutigliano, presidente Ferpi, Emanuela D’Alessandro, direttore dell’Istituto Diplomatico del Ministero degli Affari esteri, oltre ai co – docenti del corso, Mark Belinsky ed Elizabeth Ghormley.

I media e la rappresentazione della realtà

da: FERPI - Valeria Cecilia

Un supercomputer, Nautilus, realizzato da un team di ricercatori americani, è in grado di analizzare milioni di articoli giornalistici e capire gli elementi di crisi di un paese. Da questa notizia/provocazione, Valeria Cecilia riflette sulla capacità dei media di essere rappresentativi della realtà e sul ruolo dei Media Relator che, per propria mission leggono i giornali anche per trarne analisi di scenari e formulare indicazioni utili ai decision maker delle proprie organizzazioni.



Sono diversi i media (1) che in questi giorni hanno riportato la notizia di un supercomputer, un certo Nautilus, in grado di analizzare centinaia di milioni di articoli giornalistici e da qui capire gli elementi di crisi di un paese, prevedere eventuali rivoluzioni e sommosse popolari, scovare terroristi nascosti come per esempio, a suo tempo, un certo Bin Landen.

Nautilus, questo super computer, è stato messo a punto da Kalev Leetaru, un professore dell’Università dell’Illinois che insieme ai suoi ricercatori vi ha inserito la bellezza 100 milioni di articoli giornalistici, (stampa, tv, radio) affidando poi allo stesso pc il delicato compito di fare un’ “analisi di scenario” attraverso la ricerca di parole chiavi. Ad esempio, per l’analisi delle tensioni e dei punti di crisi socio politici di un dato paese le parole chiave scelte sono state quelle che descrivono lo stato d’animo e le opinioni dei cittadini: “terribile”, “orribile”, “bello”.

Con questo sistema, a quanto pare, i ricercatori hanno fatto previsione giuste circa fatti non certo secondari, quali quelli primavera araba, in Libia come in Egitto, e anche su fatti meno recenti, quali la prima guerra del golfo del ‘91 e quella dell’Iraq nel 2003. Ed è sulla base di queste giuste analisi e previsioni che – riporta lunedì 12 settembre Guido Olimpio sul Corriere della Sera – "i gestori di Nautilus ritengono che la macchina unita all’analisi dei sentimenti può dare una mano a servizi segreti e governi. Anzi, Leetaru sostiene che le capacità del supercomputer se rifornito di informazioni accurate, superino quelle degli 007 e degli analisti”. Il tutto, vorrei sottolinearlo ancora, analizzando quanto riportato dai media.

Ciò secondo me propone un parallelo interessante con l’attività dei relatori pubblici, dei Media Relator in particolare, ovvero coloro che per lavoro leggono e analizzano quanto riportato dai media, (anche se non certo con la capienza elaborativa di Nautilus…) anche con lo scopo di trarne analisi di scenari e altre indicazioni utili da fornire ai decision maker delle proprie organizzazioni.

Ma la primissima riflessione che mi ha fatto fare Nautilus devo dire che è stata un’altra: se lui si affida ai media per fare indagini così importanti e riesce a fare analisi corrette, allora significa che i media sono ancora in buona parte rappresentativi della realtà! Ed è stato un pensiero davvero piacevole e confortante dato che ormai siamo abituati a considerare i media sempre avvolti con tutti quei fattori che vogliono influenzarli, distorcendo e inquinandone l’autenticità delle notizie (anche per responsabilità dei media e giornalisti stessi ovviamente non solo degli influencer), come ad esempio il noto rapporto tra pubblicità e spazi giornalistici), le quote nei cda, gli uffici stampa (noi!) che fanno pressione e “confezionano” notizie, la politica e i politici, le amicizie, i ricatti (non ultimo ricordiamo il caso Porro – Apicella.

La seconda riflessione è più complicata: ho pensato che probabilmente vanno fatti dei distinguo. Forse ci sono settori giornalistici, pagine, aree, dove l’influenza, l’inquinamento è più forte e altri meno: quelli politici? Quelli dedicati alle aziende? E la cronaca invece? Nautilus come fa? Non so, mi piacerebbe che fosse fatta un’indagine sull’indipendenza dei media divisa per le loro diverse aree.

Certo è che non smetto di pensare che alla fine, nell’insieme, i media hanno ancora ruolo primario nella narrazione della realtà, nello scrivere la storia.

Tornando a noi e alle Rp, se il professor Kalev Leetaru ha dichiarato che il suo sistema può far meglio dei servizi segreti, senza eccedere in presunzione, chi per lavoro monitora tutti i giorni i giornali, ovvero il caro vecchio addetto stampa, ha un lavoro di intelligence della realtà importante e utile da poter fare per il proprio committente.

Infatti chi è addetto alla lettura dei giornali e al confezionamento per il proprio cliente o per il proprio board di una rassegna stampa e della relativa analisi, chi la mattina manda una mail o fa’ un intervento in riunione per presentare il proprio punto di vista “sul da farsi”, argomentando con quanto di sua conoscenza (analisi di scenario fatta attraverso i media) credo abbia un mestiere pieno di stimoli e opportunità, oggi e nel futuro scenario, costituito da nuovi modelli gestionali delle organizzazioni e stakeholder sempre più consapevoli e attivi.

E’ quanto sostenevo mesi fa scrivevo convinta su questo sito che l’ufficio stampa è tutt’altro che morto nell’ era della disintermediazione e dei social media.

Ma oltre alle opportunità noi abbiamo anche delle responsabilità importanti: se è pacifico che il mondo dell’informazione costituisce una delle più preziose risorse della nostra libertà individuale e della democrazia, come addetti stampa abbiamo delle responsabilità nel preservare quel mondo, non inquinandolo, rispettandolo e facendosi ovviamente rispettare dai suoi addetti. Come recentemente anche un illustre direttore come Ferruccio de Bortoli ce lo ha ricordato, spedendoci un messaggio diretto a ognuno di noi.

Don Di Noto: fu proprio l'Aja ad “assolvere” il partito pedofilo olandese

da: Zenit


E' paradossale la decisione di rivolgersi alla Corte dell'Aja per far processare Benedetto XVI e i vertici della Curia romana per “crimini contro l'umanità”, soprattutto perché fu proprio l'Aja a non accettare il ricorso contro il partito pedofilo olandese dell'Amore Fraterno, della Libertà e della Diversità.

E' indignato don Fortunato Di Noto, pioniere nella lotta per la tutela dell'infanzia violata e fondatore dell'Associazione Meter onlus (www.associazionemeter.org), che fin dalla sua costituzione nel 2006 aveva avviato una campagna contro questo partito scioltosi dopo 4 anni, e che aveva tra i suoi obiettivi la liberalizzazione della pornografia infantile e i rapporti sessuali fra adulti e bambini.

Le parole di don Di Noto arrivano a pochi giorni dalla decisione della Survivors Network of those Abused by Priests (Snap), la più grande associazione di vittime di pedofilia da parte di membri della Chiesa cattolica, di presentare alla Corte dell'Aja la documentazione atta a dimostrare che il Vaticano avrebbe “tollerato e reso possibile la copertura sistematica e diffusa di stupri e crimini sessuali contro i bambini in tutto il mondo”.

“Non ci stancheremo mai – ha detto il fondatore di Meter a ZENIT – di stare dalla parte delle vittime, noi che da 20 anni le accogliamo, le ascoltiamo, le accompagniamo in un percorso ri-sorgente. Non indietreggiamo neanche nell’impegno attraverso la prevenzione, la formazione e la informazione contro uno dei fenomeni più abietti, tragici e violenti qual è la pedofilia, l’abuso sessuale sui minori”.

“La gravità è enorme, quando è perpetrata da chi riveste un ruolo genitoriale, educativo e religioso. E’ esponenzialmente più devastante quando organizzazioni criminali sfruttano i bambini fino a produrre l’inverosimile - tale è stata l’ultima denuncia di Meter - : centinaia di bambini sottoposte a pratiche sadomaso e bondage”.

E “nonostante la denuncia formale alle autorità di Polizia, il comunicato agli organi di informazione – ha osservato il sacerdote –, nessuno si è indignato, o ha pensato di scrivere all’Aja per definire che questi sono crimini contro l’umanità”.

“La pedofilia del clero, come quella dei magistrati, degli avvocati, dei medici, degli insegnati, di un padre, madre, nonno, fratello, sorella è un crimine contro l’umanità; ed in questo caso è bene ribadirlo che proprio l’Aja aveva ribadito che la pedofilia, nella libertà di espressione, di riunirsi, inclusa la libertà di organizzarsi in un partito politico, sono le basi di una società democratica”.

“Con questa motivazione il tribunale dell'Aja respinse il ricorso di alcune associazioni (tra le quali Meter) le quali chiedevano che il neonato Npdv, il partito dei pedofili, fosse bandito dalla società olandese”.
“Il giudice Hofhuis, presidente della Corte, stabilì che il partito 'non ha commesso un crimine, ma chiede solo una riforma costituzionale'. La fortuna è stata che il partito pedofilo olandese ufficialmente si è sciolto per la pressione pubblica e non certamente dell’Aja”.

“Paradossi? E’ tutto da vedere. Ma come ci si può rivolgere all’Aja quando ci sono stati questi drammatici e ambigui risvolti che hanno 'favorito' la diffusione della pedofilia e della pedopornografia?”, si è chiesto don Di Noto.

“Noi stiamo con Papa Benedetto XVI per il coraggio con cui ha affrontato il problema della pedofilia nel clero – ha dichiarato –, ma stiamo con lui perché non ha mai fatto mancare l’incoraggiamento verso chi si occupa di infanzia violata, abusata e vilipesa”.

“E’ probabile – ha ammesso – che ancora non ci sia la totale sensibilità e il coinvolgimento dei Vescovi e anche di sacerdoti e operatori pastorali in merito a queste tematiche delicate, devastanti che ledono permanentemente i bambini e le famiglie coinvolte”. Tuttavia, ha osservato, “il Papa si è assunto delle radicali responsabilità, a nome di tutti”.

Per questo il fondatore di Meter ha auspicato “che altri si carichino di responsabilità, forse a partire dagli Uffici preposti ad affrontare queste tematiche che non possono né potranno essere superficialmente affrontate. Molto si è fatto, tanto ancora bisogna fare”. Ad esempio, “non si è pensato ad una 'pastorale di prossimità contro gli abusi (non solo quelli sessuali)' inserita nel percorso formativo a lungo termine e non per la sola emergenza”.

“Non sono sufficienti solo i discorsi accademici o scientifici ma 'operatività' e azione per dare concrete risposte non solo per la pedofilia nel clero ma per tutti gli abusi all’infanzia”.

“Gli atti di riconciliazione e di pace si compiono quando 'giustizia e misericordia' si incontreranno – ha concluso –. Basta più guerra, saremo tutti vittime e gli unici vincitori sono proprio i pedofili, gli sfruttatori dei bambini, che proliferano e aumentano inverosimilmente compiendo gravi crimini contro l’infanzia. C’è da rifondare e riformare la società, tutta intera”.