La Missione è quella di creare un'associazione tra la Comunicazione e la Cultura. Spesso questi due ambiti non si incontrano (il comunicatore non fa vera cultura e l'accademico non sa comunicare in modo efficace). Noi vorremmo far incrociare i due binari per portarli a formarne uno unico.

Vorremmo stimolare l'aspetto critico del fruitore, per comunicare cultura e per acculturare la comunicazione.

Questo Blog vuol essere un punto di riferimento per articoli d'informazione giornalistica-scientifico-culturale-economica.

Qui potrete trovare ogni tipo d'informazione e saremo lieti di stimolare un sano e doveroso dibattito per ogni singolo articolo, con il fine d'incrociare nel massimo rispetto di pareri ed opinioni diversi tra loro, per giungere così ad una proposta d'incontro tra i molteplici aspetti di una società multiculturale

domenica 23 ottobre 2011

Il motociclismo ricorda così “SuperSic”, Marco Simoncelli

da: BikeRacing


C’è chi non ha trovato le parole, c’è chi lo ha voluto ricordare con aneddoti di una vita vissuta insieme nelle corse. Il motociclismo si è stretto nel ricordo di Marco Simoncelli, scomparso oggi al Sepang International Circuit per un tragico incidente nel corso del secondo giro della gara riservata alla classe MotoGP. Tramite i “social network” un pò tutti i piloti, manager, tifosi e appassionati hanno voluto ricordare Marco così, come “SuperSic”.

Mattia Pasini (amico di Simoncelli), via Facebook
nn ho parole per descrivere questo momento!!!proprio vero che la vita è infame….beffarda.. fa male sempre a chi nn se lo merita…..è proprio vero che è tutto un’equilibrio sopra la follia…..bè…. MARCO… sono stato li cn te,fino all’ultimo,ho pregato,versato lacrime come continuo a fare,è nn riesco a trovare una risposta!!!cn te credo sia rimasto un pezzo di me,un pezzo d vita,un pezzo d cuore….tutte le nostre avventure,battaglie sin da quando eravamo bimbi…bimbi cn un sogno….bè,oggi mi domando se ne vale ancora la pena…..due anni fa qua dopo il titolo c siamo abbracciati e abbiamo pianto insieme,oggi io piango te,perchè nn t potro riabbracciare….. buffo!sono convinto che te ne sei andato facendo quello che amavi,ma questo nn serve a riempire il vuoto che c hai lasciato!!!sto riflettendo se realmente ne vale la pena,fare sacrifici,rischiare la pelle,dedicare tutta la vita x rimanere un ricordo….sappi pero che se andro avanti x inseguire quel sogno lo farò per te!!!! sarai e rimarrai sempre cn me,e se avro bisogno so che c sarai…nel mio cuore….

Gioele Pellino (avversario di Simoncelli agli inizi), via Facebook
Siamo cresciuti insieme nelle mini moto, per poi continuare a battagliare nel campionato Italiano 125GP e nell’europeo nel 2002 dove mi hai fregato il titolo all’ultima gara in Spagna…abbiamo debuttato al motomodiale insieme nel 2003 e oggi ti sto ricordando per la tua morte….. SIMONCELLI SEI NEL MIO CUORE !“.

Marco Melandri (compagno di squadra di Simoncelli nel 2010), via Twitter
Have a safe trip Sic. Buon viaggio Marco. Le parole non spiegheranno mai la sofferenza“.

Shuhei Nakamoto (vice presidente esecutivo HRC)
Non ci sono parole per descrivere questo momento. Marco era un ragazzo molto piacevole e un pilota dotato di grande talento. Qualche volta sono stato un po’ duro con lui, per esempio a Brno dopo il suo primo podio. Gli dissi: “podio fortunato!” e lui si arrabbiò moltissimo.. ma io volevo solo motivarlo perché sapevo che avrebbe potuto fare ancora meglio. Pensavo che avremmo celebrato insieme la sua prima vittoria… adesso voglio solo ringraziare Marco per quello che mi ha dato. Le mie più sentite condoglianze alla sua famiglia in questo momento così triste“.

Andrea Dovizioso (pilota Repsol Honda)
Di fronte a queste situazioni, le parole non servono. Penso alla famiglia di Marco e tutte le persone a lui vicine, in particolare il papà e la mamma. Anch’io sono padre, ho una figlia e quello che è successo penso sia la cosa più dura. Ho rivisto le immagini della caduta. Quello che è successo mi destabilizza. Provo a rivivere quello che si prova quando si spinge forte in gara e la tragedia è dietro l’angolo.Sono molto rattristato per la perdita di Marco. Era un pilota forte, ha sempre spinto tanto. Corriamo insieme da quando siamo bambini. L’ho sempre visto correre dando il massimo, l’ho visto cadere tante volte senza farsi male, quasi fosse invulnerabile. Assistere a un incidente come quello di oggi mi lascia esterrefatto, mi sembra impossibile“.

Casey Stoner (Campione del Mondo MotoGP 2011)
“Sono scioccato e rattristato dalla perdita di Marco. Queste cose quando succedono ti ricordano quanto sia preziosa la vita e mi sento molto triste. Sono vicino alla famiglia di Marco, non posso immaginare quello che stanno vivendo. Il mio pensiero va a loro. Spero che possano restare uniti per superare insieme questa tragedia“.

Jorge Lorenzo (Campione del Mondo MotoGP 2010), via Twitter
Que mierda. Non c’è niente da dire in una giornata del genere. Ci mancherai. Riposa in pace Marco“.

Nicky Hayden (pilota Ducati MotoGP), via Twitter
A volte la vita non ha un senso. RIP #58, una stella dentro e fuori la pista, ci mancherai“.

Dani Pedrosa (pilota Repsol Honda)
Non c’è molto da dire davanti ad una tragedia come questa. Desidero fare le mie condoglianze alla sua famiglia e a tutte le persone a lui vicine. Ho incontrato suo padre e sono riuscito solo ad abbracciarlo, in questi momenti non conta altro. È stato un tragico incidente e tutti nel paddock siamo rimasti scioccati. Molte volte ci dimentichiamo quanto sia pericoloso questo sport e quando muore un pilota, niente ha significato. Certo, stiamo facendo la cosa che amiamo, ma in situazioni come oggi, niente conta“.

Cal Crutchlow (pilota Yamaha Tech 3), via Twitter
RIP Marco Simoncelli! Un grande pilota ed un bravissimo ragazzo. Il mio pensiero è per la famiglia ed i suoi amici. Non dimenticherò mai oggi

Hector Barbera (pilota Ducati Aspar)
Sono sotto shock. Siamo motociclisti e siamo consapevoli dei rischi che corriamo, ma ci sono degli episodi sfortunati che posson portare ad una tragedia. E’ un giorno difficile per il motociclismo: abbiamo perso un nostro compagno di viaggio, mi ricorderò di Marco come un grande avversario, insieme abbiamo dato vita a dei confronti fantastici in 250cc“.

John Hopkins (pilota Rizla Suzuki), via Twitter
God Speed Simoncelli #58… il tuo spirito combattivo vivrà per sempre!“.

Messaggio del Ducati Team
La Ducati, il team e i suoi piloti si uniscono al dolore che oggi ha colpito tutta la MotoGP e si stringono intorno alla famiglia, agli amici e al team di Marco Simoncelli che ha perso la vita in un incidente fatale durante il Gran Premio della Malesia. Ricorderemo sempre Marco per il suo sorriso, la sua disponibilità, il suo grande cuore e per le emozioni che ci ha fatto vivere in questi anni. Era uno di noi“.

Alessio “Uccio” Salucci (amico di Valentino Rossi e Marco Simoncelli)
Non ho parole per esprimere il mio stato d’animo in questo momento. Purtroppo il nostro sport a volte e’bastardo, un saluto al Sic“.

Michele Pirro (pilota Gresini Racing in Moto2)
Non ho la forza per descrivere la tristezza che provo. Addio Marco“.

Andrea Iannone (pilota Speed Master in Moto2)
Questa è una giornata terribile per la famiglia del Motomondiale. Perdiamo un amico, un gran pilota con cui molti di noi Italiani hanno iniziato la carriera nel mondo dei motori. Sono dispiaciuto e non credo di poter trovare le parole giuste per esprimere questo dolore. Sono vicino alla sua famiglia e a tutto il team. Marco, non ti dimenticherò“.

DJ Ringo (amico di Marco Simoncelli), via Twitter
Mi avevi promesso il podio più alto…ma mi hai fregato…sei andato troppo alto fratello, nel cielo. Sic riposa in pace“.

Antonio Cairoli (Campione del Mondo Motocross MX1), via Facebook
Ciao tony… Sono sic. Ti volevo fare i complimenti per la tua stagione… Grandissimo ci hai fatto sognare! Ti mando anche un forte abbraccio per quello che è successo alla tua mamma… Ciao sic58″ Caro Marco questo e il tuo messaggio di qualche settimana fa ….. Bhe adesso sei lassù sul gradino piu ALTO di qualsiasi podio , sei la assieme alla mia MAMMA!!! Non ti dimenticheremo MAI CAMPIONE!“.

Ramon Forcada (capotecnico Jorge Lorenzo), via Twitter
Senso di impotenza. Il prezzo da pagare alle volte è troppo grande

Troy Bayliss (tri-campione del Mondo Superbike), via Twitter
R.I.P Marco“.

Jonathan Rea (pilota Castrol Honda nel Mondiale Superbike), via Twitter
Riposa in pace Marco Simoncelli. Una vera fonte di ispirazione, un pilota straordinario ed un gentleman. La tua leggenda non sarà mai dimenticata“.

Scott Redding (pilota Marc VDS Racing Team, classe Moto2), via Twitter
No no no no, marco NO, non voglio crederci !!!!! R.I.P

John McGuinness (leggenda del Tourist Trophy), via Facebook
RIP Marco Simoncelli, una giornata di tragedia per il Motorsport. I miei pensieri sono per la sua famiglia e persone più care“.

Paolo Sesti (Presidente Federazione Motociclistica Italiana)
Siamo sconvolti da questo evento, assolutamente imprevedibile. Le competizioni hanno fatto passi da gigante nel campo della sicurezza, ma l’imprevedibile e’ purtroppo sempre in agguato“.


sabato 22 ottobre 2011

Morte di Gheddafi: il nuovo governo sotto accusa. La Nato si autoassolve

da: Asia news

I video mostrano che il rais ha subito un linciaggio e l’esecuzione. Oggi l’autopsia, mentre centinaia visitano la cella frigorifera dove è deposto. La tribù di Gheddafi ne chiede la salma per seppellirla secondo i canoni dell’islam. Ma il governo di transizione è indeciso se sbarazzarsi del corpo o seppellirlo in un luogo segreto. La Nato: la morte di Gheddafi non è mai stata un nostro obbiettivo. Le critiche della Russia.

Misurata (AsiaNews/Agenzie) – Le autorità libiche del governo di transizione sono sotto pressione per dare un preciso resoconto sul modo in cui l’ex leader Muhammar Gheddafi è morto. Da parte sua la Nato afferma che la morte del rais non era nei suoi piani e che terminerà le sue operazioni entro la fine del mese. Intanto la tribù di Gheddafi ha chiesto il suo corpo per la sepoltura.

Ieri l’Onu e la moglie del defunto colonnello hanno domandato un’inchiesta; anche gli Stato Uniti esigono un resoconto “aperto e trasparente”.

Quest’oggi sarà eseguita un’autopsia sul cadavere di Gheddafi per stabilire le cause della sua morte. Ma i diversi video diffusi su internet mostrano che il rais, catturato a Sirte, è stato picchiato, trascinato per i capelli, ferito e poi ucciso.

Uno dei video mostra un Gheddafi attonito con una ferita alla testa dopo una lotta con i ribelli. All’inizio però lo si vede senza ferite, circondato da uomini armati. Più tardi, del sangue cola dal lato sinistro del suo capo, mentre viene aiutato e scortato verso un camioncino. A un certo punto una voce grida in lingua araba: “Non sparate! Non sparate”. Infine vi è il volto insanguinato e reclinato del rais (vedi qui e qui).

I video contraddicono la versione ufficiale del governo, secondo cui Gheddafi è stato ucciso in un fuoco incrociato fra i ribelli e le sue guardie del corpo. La sua morte sembra più essere stata frutto di un’esecuzione sommaria.

Il modo in cui l’ex leader libico è stato umiliato e ucciso è contro tutte le leggi internazionali. Esso è offensivo anche verso la tribù di appartenenza di Gheddafi, gli Al-Gaddadfa, che oggi ha chiesto di poter ricevere la salma per la sepoltura.

“Chiediamo all’Onu – si dice in una dichiarazione - all’Organizzazione della conferenza islamica e ad Amnesty International di spingere il governo nazionale transitorio di consegnare i corpi dei martiri alla nostra tribù di Sirte e permettere loro di eseguire la cerimonia di sepoltura secondo il costume e le leggi dell’islam”.

Il corpo di Gheddafi e quello di suo figlio Mutassim giacciono in una cella frigorifera di una macelleria a Misurata. Centinaia di persone si accalcano per vedere coi propri occhi gli uccisi e per scattare foto coi telefonini. Il governo ne ritarda il seppellimento – che secondo i canoni islamici dovrebbe avvenire al più presto - in attesa dell’autopsia e di sapere cosa fare del corpo. Nel timore che la tomba del defunto rais possa diventare una specie di santuario o suscitare rivolte, il governo di transizione pensa di seppellirlo a Misurata – luogo di una tribù avversaria – o addirittura di gettarlo in mare, come è avvenuto per Osama Bin Laden.

Da parte sua, la Nato, per bocca del suo segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, ha dichiarato che “l’uccisione di Gheddafi non è mai stato” il loro obbiettivo. Secondo alcuni resoconti della cattura del rais, aerei Nato hanno sparato al convoglio in cui Gheddafi fuggiva. Ma Sergei Lavrov, ministro russo degli Esteri afferma che “il modo in cui è avvenuta la sua [di Gheddafi] morte suscita un enorme numero di domande”.

La Russia, con la Cina e atri Paesi, hanno criticato il modo in cui dallo scorso marzo in poi la Nato ha usato il mandato Onu di proteggere la popolazione civile della Libia dalle rappresaglie di Gheddafi. Secondo la Russia, la “protezione dei civili” è divenuto un modo per attuare un cambio di regime. Durante questi mesi, i bombardamenti Nato sono stati spesso rivolti contro il palazzo di Gheddafi, Bab al-Azizia, fino a ridurlo in polvere.

Rasmussen ha dichiarato che la missione Nato in Libia si concluderà il 31 ottobre e ha domandato al governo di transizione di “rispettare i diritti umani in piena trasparenza”.

Questo video contiene contenuti che potrebbero urtare la vostra sensibilità.


Pannella sulla morte/assassinio Gheddafi: non potrà più deporre all’Aia sul crimine maggiore nel mondo nell’ultimo ventennio

da: Dichiarazione di Marco Pannella, leader del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito (PRNTT)


« Sulla morte o sull’assassinio – occorrerà chiarire – del dittatore libico Gheddafi mi auguro sia fatta davvero subito verità. Mi addolora il fatto che lui non possa più deporre all’Aia, per un processo internazionale che renda al mondo i suoi diritti alla verità e alla conoscenza, a proposito della sua forse maggiore impresa criminale. 

Senza il suo aiuto non sarebbe stato possibile realizzare il crimine maggiore, forse, dell’ultimo ventennio, nel mondo: l’aver fatto scoppiare il 20 marzo 2003 la guerra in Iraq, per evitare che scoppiasse – grazie al possibilissimo e probabile esilio volontario di Saddam – con la pace, anche la democrazia e la libertà in Iraq.
I due suoi complici George W. Bush e Tony Blair, mandanti e responsabili della guerra in Iraq – i cui effetti continuano in Medio Oriente, con un “Occidente” che deve rispondere dell’avere usato un”arma di repulsione di massa” – sono due infami più di lui, perché hanno tradito i propri giuramenti, le proprie patrie, i propri doveri. Ancora non riusciamo a riparare, con la verità, la menzogna – come Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito è il nostro principale compito, forse, oggi. Fin quando noi non potremo rendere al mondo la verità, non avremo esaurito uno dei nostri compiti principali.

La scomparsa del dittatore Gheddafi mi colpisce molto. È stato un killer – ha accettato di esserlo – ma si è fatto pagare in ogni modo e molto, molto bene, per questo suo ruolo infame. È stato il killer di due suoi complici infinitamente più infami di lui, perché traditori della propria parola, traditori della propria legge, traditori della propria civiltà, traditori dei propri popoli: Bush e Blair. Avremmo avuto bisogno – come con Saddam, come con tutti gli altri “Caino” – della sua vita e non della sua morte. Senza di lui difficilmente credo potremo conoscere anche molti “dettagli” luridi e lerci di questa tragica pagina della storia umana contemporanea” »

Morto Gheddafi la guerra continua

da: La Bussola Quotidiana - di Gianandrea Gaiani


A quanto pare erano tutti a Sirte: Gheddafi, i suoi figli Mutassim e Saif al-Islam, gli ultimi ministri rimasti fedeli al regime e i combattenti più determinati. Nonostante molti esponenti del Consiglio Nazionale di Transizione e i servizi d'intelligence occidentali (anche italiani) fossero convinti che Muammar Gheddafi si fosse rifugiato tra i tuareg, nel deserto meridionale ai confini col Niger, il raìs e i suoi erano rimasti a Sirte, sua città natale e terra della sua tribù, dove hanno combattuto l'ultima
battaglia. Al di là delle versioni discordanti circa la sua morte pare evidente che nessuno avesse intenzione di prendere vivo il Colonnello e forse neppure i suoi più stretti collaboratori e famigliari.

Ve lo immaginate un processo pubblico a Tripoli o all'Aja nel quale il vecchio raìs ricorda ai libici e al mondo che i capi del Cnt sono stati suoi ministri e corresponsabili nell'eliminazione di tanti dissidenti e in tante nefandezze compiute in 42 anni di regime? O mentre, alla sbarra, illustra i molteplici rapporti intercorsi con la Cia e i servizi segreti di mezza Europa per contrastare il terrorismo islamico o ricorda le genuflessioni ai suoi piedi di tanti leader che in questi mesi gli  hanno fatto la guerra pronti a tributare al Colonnello tutti gli onori (e anche di più) in cambio di contratti petroliferi o dell'acquisto di armi?

Meglio evitare situazioni imbarazzanti e quindi per Gheddafi
e forse anche per i suoi figli le esecuzioni sommarie erano inevitabili anche se, caduta Sirte e bloccato l'ultimo convoglio con i fuggitivi, non sarebbe stato difficile prenderli vivi.

La morte del raìs offre il destro alla Nato per annunciare
la fine delle operazioni militari, forse già nelle prossime ore, e al Cnt per ufficializzare la completa liberazione della Libia. Ma la guerra è davvero finita?

E' presto per dirlo. Di certo la morte di Gheddafi offre
l'opportunità di avviare una politica di unificazione nazionale tesa a costruire una nuova Libia ma non è detto che il Cnt abbia la forza e la capacità politica per farlo, diviso com'è al suo interno tra diverse anime politiche (laici ed
islamisti in testa) e tribali. Differenze che potrebbero accentuarsi ora che il "collante" determinato dalla lotta al comune nemico è venuto meno. I primi riscontri in questo senso li avremo presto quando si costituirà o meno il nuovo governo del Cnt che il premier Mahmoud Jibril aveva dichiarato di poter costituire dopo la cattura o la morte di Gheddafi.

Resta infine da verificare se le forze lealiste si dissolveranno
dopo la scomparsa di tutti i vertici del vecchio regime o se manterranno una capacità di contrasto militare o di guerriglia (o di terrorismo) nei confronti dei nuovi padroni della Libia. A questa ipotesi è legato a doppio filo il ruolo delle tribù Warfalla e Ghaddafa, che hanno visto distrutte le loro città di Sirte e Bani Walid. Tenderanno la mano al Cnt o cercheranno vendetta? Nel sud poi non sarà facile convincere tuareg e popolazioni di
colore a fidarsi del Cnt dopo le rappresaglie razziste effettuate dai miliziani che hanno ucciso, torturato e imprigionato migliaia di uomini accusati di essere mercenari "africani" del Colonnello. Come in Iraq negli anni scorsi anche in Libia la fine del dittatore chiude un'epoca ma è presto per dire se coincida o meno con la pace e la stabilizzazione.




Mubarak piange per Gheddafi

da: La Stampa

Choc e crisi di nervi dopo aver visto le foto del Colonnello insainguinato e spaventato

Si è messo a piangere e ha avuto una vera e propria crisi isterica l’ex presidente egiziano Honsi Mubarak quando, dal suo letto d’ospedale, ha visto le foto di Muammar Gheddafi insanguinato e poi esanime, ucciso dai miliziani del Consiglio nazionale transitorio libico a Sirte il 20 agosto. Lo riferiscono fonti mediche dell’ospedale militare del Cairo dove l’ex presidente egiziano è ricoverato mentre è in corso un processo contro di lui per aver ordinato di sparare contro i manifestanti a Piazza Tahrir.

La reazione di Mubarak alla vista delle foto del cadavere di Gheddafi ha richiesto l’intrevento dei medici, che gli hanno somministrato dei calmanti, come riferisce il giornale egiziano el-Fagr sul suo sito Internet. L’esercito, invece, ha rafforzato la presenza degli uomini della scorta nei pressi del nosocomio, per evitare che qualcuno possa essere spinto dalla fine di Gheddafi a uccidere anche Mubarak. Dopo la fine di Gheddafi anche altri leader tremano. L'attuale presidente siriano Bashar al è alle prese con la rivolta dagli esiti più cruciali per gli equilibri di tutto il Medio Oriente. Lo dimostra il pesante bilancio di vittime - oltre 3.000 secondo i numeri al ribasso dell’Onu - di una sanguinosa repressione condotta dalle forze lealiste in modo indisturbato da sette mesi. Sull’opportunità o meno di un intervento straniero in Siria non c’è un consenso internazionale e, a parte la Turchia, tutti i Paesi vicini compreso Israele sembrano avere più da perdere che da guadagnare da un’eventuale caduta degli Assad. Da qui il permanere dello squilibrio delle forze in campo tra manifestanti e disertori da una parte, e lealisti dall’altra.

Lo stallo è evidente anche nel lontano Yemen, la cui stabilità è cruciale per gli equilibri della Penisola Araba, del Corno d’Africa e per i lucrosi traffici che passano tra Suez e Oceano Indiano. Il presidente Ali Abdallah Saleh, ferito gravemente a giugno in un attentato a Sanaa nel mezzo di massicce proteste popolari in parte represse nel sangue (oltre 450 morti da febbraio scorso), è tornato a sorpresa nelle scorse settimane dopo esser stato ricoverato a Riad. Nonostante il precario stato di salute del rais in carica da 31 anni, il potere è ancora in mano ai suoi figli e nipoti, a capo delle forze d’elite, dei servizi di sicurezza e della guardia repubblicana. I manifestanti non smettono però di protestare, aprendo il Paese a ulteriori scenari di instabilità, già presenti a nord (ribelli sciiti), a sud (secessionisti), nelle regioni orientali e occidentali (presunte cellule di al Qaida). Apparentemente soffocata è invece la rivolta in Bahrein, regno nel Golfo Persico dominato da una casata sunnita in carica da 40 anni e sotto influenza sunnita, ma abitato da una maggioranza sciita corteggiata dal vicino Iran. I moti di febbraio e marzo (decine di morti), domati con l’intervento delle truppe di Riad, sono sopiti solo in superficie, e i recenti incidenti avvenuti nella confinante provincia saudita di Qatif, anch’essa abitata per lo più da sciiti, tiene in forte allarme i sauditi. La primavera araba ha investito in maniera meno significativa anche l’Alegeria, il Marocco, l’Iraq, l’Oman e la Giordania.

Ma in questi Paesi - quasi tutte monarchie - le autorità sono riuscite per il momento a sedare le proteste con un misto di regalie e repressione. Dando però l’impressione di aver solo rimandato la resa dei conti. Che è ancora aperta, a Tunisi, al Cairo e a Tripoli, dove la caduta dei rispettivi rais non ha certo significato la fine delle rivoluzioni, ma solo il loro tormentato inizio.


lunedì 17 ottobre 2011

Mina sul web a caccia dell'autore di una canzone del nuovo album

da: Il Messaggero

ROMA - È senza dubbio una delle più belle canzoni interpretate da Mina negli ultimi anni. E farà parte del nuovo album, in uscita a metà novembre. Peccato però che l'identità dell'autore di Questa canzone sia avvolta nel mistero. Forse però l'arcano verrà svelato grazie al web. «Abbiamo la scarpetta, ora dobbiamo trovare Cenerentola», dice Massimiliano Pani. «È veramente un bel pezzo, non depositato alla Siae, abbiamo controllato. L'unico modo per scoprire l'autore è internet; speriamo che lui se ne accorga e ci mandi il provino originale». Svela che il pezzo inviato, come tanti altri, a Mina è stato «registrato su un'audiocassetta, forse anche un paio di anni fa. La voce non ha alcun accento regionale, nè si riesce a risalire all'età». Spiega: «Mia mamma fa le cose più belle che le arrivano. Parliamo di tremila 'demò l'anno, ognuno contiene 4-5 canzoni, fate un pò i conti. Noi le archiviamo in ordine cronologico e lei le ascolta tutte, ogni giorno dedica del tempo a questo lavoro minuzioso. Il pezzo, di cui si è perso l'indirizzo, sarà rimasto in una catasta».

Mina «ha molto rispetto per il suo lavoro - spiega Pani - . Ogni anno nei suoi cd ci sono due-tre pezzi arrivati così, e sono belli. Le case discografiche non considerano più gli autori. Nell'impoverimento del panorama discografico italiano ci sono autori che fanno un altro lavoro e mandano a lei i pezzi, perchè è l'unica che ascolta tutto. Spesso per comodità li incidono su vecchie audiocassette». Come in questo caso: «Il provino è tremendo - racconta Pani - , molto casalingo, sembra fatto in cantina. Ma lei l'ha beccato subito. D'altronde è una vita che trova i pezzi. E lei a cantare le emozioni è la più forte». Per trovare Cenerentola è stato creato un sito ad hoc (www.minamazzini.com/questacanzone). «Lì carichi il tuo provino. Li dovrò ascoltare tutti e confrontarli con l'originale», spiega Pani.

Sulla nuova pagina Facebook saranno disponibili le indicazioni per fornire la prova inequivocabile della paternità del brano. Introdotta da chitarra acustica e pianoforte, la voce di Mina irrompe dolcemente: «Canto per te questa canzone per tormentarti ancora un pò/ tornare lì per un momento/ con te che non puoi dire no». Accompagnata poi dall'orchestra, Mina interpreta in modo molto intenso e coinvolgente questo brano dedicato a una grande storia d'amore rimasta per molto tempo segreta, clandestina. «Canto per te questa canzone - recita il testo - e so già quello che farai. Adesso fingerai di niente, ma dentro invece tremerai. No, non ti tradire con la gente/ continua a fare quel che fai/ non ti fermare mio solo amore/ tutto resta tra di noi. Volevo solo dirti ancora/ che non è passata mai/ che tu mi senti come allora/ anche se non lo dici mai». «Canto per te questa canzone - conclude Mina - per farti male forse un pò, perchè tu sappia almeno ancora che dentro non mi hai perso, no».

«È un testo nel quale tutti ci possiamo riconoscere» commenta Pani, che aggiunge: «Non si hanno 50 anni di carriera alle spalle solo perchè hai una bella voce, ma perchè sai trovarti un repertorio che sai vestire - dice - . Mina ha lanciato tantissimi cantautori. I suoi primi pezzi Battisti, quando ancora non cantava, li ha dati a lei. Così come De Andrè. Disse che se Marinella non l'avesse cantata Mina, non avrebbe mai preso coraggio e sarebbe diventato un cattivo avvocato». Nel nuovo album Mina ha voluto anche due brani firmati da Giuliano Sangiorgi, 'Brucio di tè e Così sia. Dopo aver ascoltato le sue versioni di Bugiardo incosciente e Un anno d'amore, l'ha chiamato commossa nel cuore della notte e gli ha detto «quando vuoi buttame dù scarti». Sorprendente, e unica. Semplicemente Mina.

Conferenza separatismo basco: a ETA si chiede fine definitiva violenza

da: Euronews



L’Eta deve cessare la violenza in modo definitivo. Dall’ex segretario dell’Onu Kofi Annan al presidente dello Sinn Féin Gerry Adams, lo chiedono i mediatori che si sono riuniti per la conferenza sul separatismo basco a San Sebastian.
Nel Paese Basco spagnolo – oltre a esponenti politici locali – c’erano anche altri personaggi protagonisti della gestione del conflitto nordirlandese.
Secondo indiscrezioni, l’Eta – considerata organizzazione terroristica da Spagna, Unione Europea e Stati Uniti e considerata responsabile della morte di almeno 800 persone – potrebbe esprimersi su un cessate il fuoco definitivo in settimana.

Todi, l'affondo dei cattolici: «Serve un governo più forte»

da: Il Messaggero

«Non c’è motivo di temere per laicità dello Stato ma nemmeno negare la dimensione pubblica della religione»


TODI - Chi immaginava il battesimo di un partito cattolico rimarrà forse deluso, ma il seminario che ha riunito a Todi tutte le associazioni cattoliche per la prima volta dal dopo guerra, lancia comunque un messaggio preciso: Berlusconi è inadeguato al governo del paese e serve un suo passo indietro. Un altolà che la dice lunga sulla voglia dei cattolici di riprendersi la scena politica e, non credendo più al bipolarismo della seconda Repubblica, propongono nuove ricette. Non c'è dietro nessuna Cosa Bianca, nessun partito, assicurano. Ciò che è all'orizzonte è però un Cartello di tutte le associazioni che secondo alcuni dei presenti dovrà fare da «incubatrice» ad un soggetto vero e proprio, mentre secondo altri servirà a fare da lobby incidendo di più nei programmi dei partiti e dei governi. I presenti al seminario hanno incassato di prima mattina la benedizione del cardinal Angelo Bagnasco che ha invitato i laici a impegnarsi in politica in prima persona: anzi, astenersene «è un peccato».

Parole lette come il superamento da parte della Cei dell'era Ruini quando ai laici fu imposto un passo indietro rispetto all'intermediazione diretta delle gerarchie con il governo di turno. Le sessioni del mattino dedicate ai valori e all'economia, con le relazioni di Corrado Passera, l'economista Stefano Zammagni e il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi, hanno mostrato le risorse umane, intellettuali ed economiche di cui il cartello può potenzialmente disporre. Nel pomeriggio si è entrati nel merito con le sollecitazioni di Giuseppe De Rita, Ferruccio De Bortoli ed Ernesto Galli Della Loggia, che hanno invitato i presenti a chiarirsi innanzitutto tra loro cosa vogliono fare. In una sorta di brainstorming, il cui ognuno ha detto liberamente la sua, sono emerse posizioni diverse, come ha riferito alla fine Luigi Marino, presidente di Confcooperative, ma anche punti comuni. A partire dal fatto che tutti credono nella fine di Berlusconi e del berlusconismo: «si pensava che un uomo solo al comando ci liberasse dai guai - ha sintetizzato Bonanni - invece è la cosa che ci inguaia». E al Cavaliere si chiede un passo indietro a favore di un «governo forte», ha detto Bonanni, sostenuto «dai principali partiti».

La fine del berlusconismo, hanno concordato tutti, implica un ritorno alla partecipazione da parte di tutti i cittadini. Le differenze: c'è stato chi, come il presidente di Mcl, Carlo Costalli, ritiene che si apra lo spazio per un soggetto politico cattolico; anche il portavoce del Forum delle associazioni promotrici, Natale Forlani, vede spazi di un nuovo protagonismo. Tale impostazione potrebbe essere declinata come appoggio al progetto del Ppe italiano che unisca tutti i moderati dall'Udc al nuovo Pdl di Angelino Alfano fino a una parte dei cattolici del Pd; oppure come soggetto che intanto scende in campo autonomamente, ipotesi su cui Ornaghi ha invitato a riflettere. Contrari al progetto Ppe il presidente delle Acli, Andrea Oliviero e diverse grandi associazioni più impegnate sul versante educativo e religioso come Azione Cattolica. Contrario anche Bonanni: le organizzazioni, ha spiegato «sono soggetti sociali e tradirebbero la loro missione se facessero politica direttamente» invece devono promuovere l'impegno dei singoli associati. Per Luigi Marino il Cartello «deve fare comunque da incubatore a qualcos'altro».

La nascita imminente del Cartello è comunque un passaggio notevole come sottolinea Forlani: «Dopo 40 anni finisce la diaspora delle associazioni cattoliche». E comune è la scarsa considerazione degli attuali partiti: «Auspichiamo una loro scomposizione e ricomposizione» ha detto Andrea Oliveiro che con Raffaele Bonanni ha insistito per una riforma elettorale in direzione di un modello proporzionale alla tedesca. Cosa che rispetto al bipolarismo cambierebbe le regole del gioco e aprirebbe scenari diversi. Lo scenario che intanto scaturisce da Todi, però, viene accolto con freddezza e malcelato fastidio dal Pdl. Eugenia Roccella, parla di incontro deludente, Sandro Bondi ha invece invitato la Chiesa a lasciare ai laici il campo della politica limitandosi a occuparsi di fede e chi boccia senza appelli le ricette e richieste del forum: «non meglio precisati governi di tutti e con tutti, volti a mettere tra parentesi le scelte degli elettori - sentenzia il portavoce del Pdl, Capezzone - sanno di vecchia politica. Altro che novità».

domenica 16 ottobre 2011

I fatti di Roma rispecchiano una crisi più ampia

da: Libertà e Persona

Nel vedere certe immagini più che indignati ci si ritrova letteralmente inviperiti.

Il resoconto della manifestazione romana di ieri pomeriggio è impietoso: oltre cento feriti, un blindato della polizia e svariate macchine private bruciate, molteplici cassonetti distrutti, tantissimi motorini buttati per terra, la devastazione animale di negozi, banche e altre sedi simbolo del capitalismo, nonché la profanazione di una statua della Madonna.
 
Tutto questo per un milione (!) di euro di danni a beni pubblici, e non si sa quanti ad oggetti appartenenti a privati. Ma non c’è solo l’aspetto materiale: bisogna tenere conto anche della paura dei manifestanti pacifici, delle forze dell’ordine e di tutte le persone che si sono ritrovate, loro malgrado, in mezzo ad una vera e propria guerriglia urbana.

All’inizio della manifestazione il gruppo di black bloc marciava compatto per le vie di Roma, dietro uno striscione su cui campeggiava la scritta: “Non ci interessa il futuro, ci prendiamo il presente”. E come se lo sono presi l’abbiamo visto tutti.
 
Questo gruppo di facinorosi – composto in larga parte da anarchici e ragazzi appartenenti ai centri sociali – ha come unico scopo del proprio agire quello di combattere contro le istituzioni capitalistiche. La sola modalità di esprimersi che conoscono è la violenza e il sentimento che li anima è l’odio.

Ma la domanda è: perché succede tutto questo?

E’ vero che la situazione politica, economica e sociale è pessima ed è, soprattutto per i giovani, fonte di enorme preoccupazione. Ma di fronte a tutto questo l’unica risposta possibile è quella di rimboccarsi le maniche e lavorare per costruire un futuro migliore, senza rassegnarsi ad un mondo che ci vorrebbe tutti uguali ed interiormente morti.
 
L’odio non ha mai portato da nessuna parte, se non ad altro odio.
Questo non vuol dire fare finta che vada tutto bene, ma significa porsi di fronte alla realtà con una domanda aperta (che non sia però “pretesa”) e con uno sguardo che non sia di pessimismo, ma di speranza.

Ma forse, in fondo, perché accada tutto questo bisognerebbe prima che l’uomo recuperasse la propria interiorità. I giovani incappucciati di ieri sono ragazzi insoddisfatti, arrabbiati, profondamente infelici, che hanno di bisogno di qualcuno con cui prendersela per evitare di dover fare i conti con se stessi.
 
Perché la società sta andando a rotoli? Perché si è perso sempre più quello che fino a pochi anni fa era il centro di tutto: uno sguardo cristiano della realtà, ossia un atteggiamento di corretta valorizzazione dell’umanità di ognuno congiunta alla consapevolezza di essere inseriti in un progetto più grande, di cui l’Artefice è un altro, al quale l’uomo non deve sostituirsi.

Senso di giustizia: si comincia già a 15 mesi

da: L'Ottimista


Una delle virtù fondamentali dell’uomo, cioè il senso della giustizia, è già presente nei bambini con poco più di un anno di vita. È quanto rivela uno studio dei ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Washington coordinato dalla dottoressa  Jessica Sommerville e pubblicato recentemente sulla rivista on line Plos One.

A 47 bambini di 15 mesi, tenuti in braccio dai propri genitori, sono stati mostrati in successione due brevi video. Il primo mostrava  un adulto che distribuiva cracker a due persone in due volte successive, prima in modo equo e dopo in modo palesemente diseguale, favorendo una delle due. Nel secondo filmato si ripetevano le stesse scene, ma questa volta con del latte. Le reazioni dei bambini agli eventi a cui assistevano sono state esaminate secondo il principio della violazione dell’aspettativa, per cui il piccolo presta più attenzione quando assiste a qualcosa che lo sorprende. È stato pertanto misurato il tempo che i bambini dedicavano ad osservare la distribuzione del cibo. In base a ciò è emerso che la maggior parte di loro “si aspettava un’equa e giusta distribuzione del cibo ed erano sorpresi nel vedere che a qualcuno venivano dati più cracker o più latte” ha spiegato la Sommerville.

Nella seconda parte dell’esperimento i ricercatori hanno voluto vedere se al senso di equità dimostrato nell’osservare i filmati corrispondesse un reale comportamento di generosità da parte del soggetto. A ciascun bambino sono stati mostrati due giocattoli, invitando i piccoli a sceglierne uno, per capire quale fosse il preferito. Successivamente compariva un ricercatore prima non presente, che chiedeva con gentilezza al bambino di cedergli  uno dei due  giochi. A questo punto era evidente come già in questa età emergessero chiare differenze individuali di comportamento. Infatti un terzo dei piccoli era disposto a condividere con l’estraneo il gioco preferito, un altro terzo cedeva quello non scelto ed infine un altro ancora li teneva per sé tutti e due e si mostrava infastidito dalla richiesta.

Inoltre questa seconda parte dell’esperimento indicava una correlazione importante con la prima. Infatti la quasi totalità dei bambini che si erano mostrati sorpresi dalla distribuzione diseguale del cibo era propensa a regalare il proprio gioco preferito. Per contro la maggior parte di quelli che fornivano il gioco non gradito aveva mostrato più interesse alla scena della distribuzione equa del cibo. Pertanto quei bambini che hanno già il senso di ciò che è giusto o ingiusto sono più generosi e propensi a condividere con gli altri il proprio gioco preferito.

“Le nostre scoperte mostrano come le norme di giustizia ed equità vengano acquisite più rapidamente di quanto pensassimo. Questi risultati mostrano una connessione tra correttezza ed altruismo – ha affermato la Sommerville – è molto probabile che i piccoli imparino ciò osservando come si comportano gli adulti intorno a loro ritenendo quindi che questi siano comportamenti appresi piuttosto che innati”. Ancora una volta rimaniamo sorpresi e quasi increduli di fronte ai risultati delle ricerche sul mondo della prima infanzia che ci anticipano scenari di complessità ed organizzazione del pensiero e delle emozioni che finora pensavamo davvero impossibili in questa età.

Stoner torna re dopo quattro anni

da: La Stampa


La parabola dell'australiano: dal Mondiale in Ducati alla crisi del 2010 fino alla nuova consacrazione


Dieci anni in sella e arriva il secondo titolo mondiale. Il campione prodigio è tornato: Casey Stoner ha coronato sul circuito di casa un altro sogno. Quello di tornare re della classe Motogp dopo il trionfo nel 2007 con la Ducati che lo aveva lanciato nel firmamento dei grandi. A 4 anni di distanza, nel giorno del suo 26° compleanno, e dopo un periodo buio che lo aveva tenuto lontano dalle sue adorate moto per un malessere rimasto un mistero, l'australiano si è preso la sua rivincita sulla vita stavolta alla guida della Honda.

Una cavalcata da protagonista quella di Stoner che conquista l'iride con due gare di anticipo sulla fine della stagione, dopo 9 vittorie, in Qatar, Francia, Catalunya, Inghilterra, Laguna Seca, Repubblica Ceca, Indianapols, Aragon e Australia, oltre a un secondo posto in Olanda e 5 terzi posti in Portogallo, Italia, Germania, San Marino e Giappone. Nato a Kurri Kurri, nello stato del New South Wales, Stoner ha debuttato nel mondiale nel 2001 con una Honda RS125, disputando solo due gare. L'anno successivo, nel 2002 è a bordo dell'Aprilia 250 del Team di Lucio Cecchinello, ma non raccoglie molto e finisce la stagione 12°. La cilindrata giusta per il giovane Stoner è dunque la 125 e l'anno dopo scende nella ottavo di litro. Del 2003 è la prima vittoria e la prima pole mondiale, ma ci sono anche 4 podi. La posizione finale nel 2003 è l'8ª.

Nel 2004 il passaggio alla Ktm sempre in 125 (chiude l'anno 5°). Stoner è ormai pronto per il salto di categoria, nel 2005, infatti, torna nel team di Lucio Cecchinello in 250 con un'Aprilia. Disputa un anno da protagonista, in lotta per il mondiale con Jorge Lorenzo e Dani Pedrosa. Ironia della sorte, Stoner perde le sue chance iridate proprio a Phillip Island, quando scivola e viene centrato anche da Alex De Angelis. Alla fine della stagione Stoner finirà secondo. L'anno successivo l'esordio in Motogp. Nel 2005 ci sono ancora le 1000 e il pilota australiano porta in pista una Honda RC211V, con la quale però ha scarso feeling. Stoner cade spesso: sale una sola volta sul podio e fa segnare una pole, per concludere con l'8° posto. A fine 2005 l'allora team manager della Ducati, Livio Suppo, ingaggia Stoner facendogli firmare un contratto da secondo in squadra, ma sin dai test di Valencia Stoner dimostra di essere il numero uno. L'australiano mette sotto pressione la Ducati, la sola con le gomme Bridgestone: da lì in poi cadrà pochissimo.

La stagione 2007 infatti è una cavalcata quasi solitaria. Nulla può un Valentino Rossi in forma con la sua Yamaha contro l'australiano che vince 10 gare, sale 14 volte sul podio, fa 5 pole. Il primo titolo in motogp per Stoner e per la Ducati dunque arriva nel 2007. Nel 2008 non bissa il titolo che va a Rossi. In quell'anno, l'australiano è tra i più credibili avversari di Rossi, insieme a Lorenzo. Stoner vince 6 gare, fa 11 podi, 9 pole e 9 giri veloci e termina secondo. Dal 2009 al 2010, nonostante risultati brillanti, il feeling con la Ducati si incrina. La moto con le ultime modifiche non va più come vuole lui. Il problema secondo l'australiano è l'anteriore con il quale combatte per due anni. Nelle annate 2009-2010, Stoner è due volte quarto in campionato e non vede l'ora di cambiare squadra. Nel 2009 la crisi con la Ducati, che lo porta a saltare due gare nella parte finale della stagione per una forma di malessere ancora oscuro. Si parlò anche di depressione. Livio Suppo, passato a sua volta da Ducati a Honda nel 2010, gli offre un contratto da ufficiale con la Hrc in sella a una Honda RC212V. Anche in questo caso il feeling tra Stoner e la sua nuova moto si vede a Valencia a fine 2010 nei test, dove alla sua prima uscita con la Honda mette dietro tutti. Nel 2011 un'altra cavalcata vittoriosa per Stoner che ha nel solo Lorenzo l'avversario più temibile per il titolo. Ma Stoner con le sue 9 vittorie, quella decisiva proprio a Phillip Island, 11 pole e 325 punti al momento (65 di vantaggio su Lorenzo con ancora 50 punti da assegnare), mette le mani, ancora una volta sulla corona della classe regina.

Yemen, massacrate altre dodici persone

da: il Secolo XIX


Beirut - Almeno 12 oppositori, secondo fonti mediche, sono rimasti uccisi ieri in Yemen quando le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro una manifestazione nella capitale Sana’a. Altri testimoni hanno detto che 10 miliziani di un clan tribale schieratosi contro il regime sono rimasti uccisi in un attacco della Guardia repubblicana alle loro postazioni nel nord della capitale.

A contribuire al clima di caos nel quale il Paese sembra precipitare dopo nove mesi di proteste contro il presidente Ali Abdallah Saleh, al potere da 33 anni, sono le azioni nel Sud e nell’Est dello Yemen dei miliziani di Al Qaida nella Penisola arabica (Aqpa).

L’esportazione di gas dal terminale di Balhaf, sul Golfo di Aden, un’attività in cui ha una quota la compagnia francese Total, è stata interrotta e il personale è stato evacuato dopo un attacco compiuto con lanciarazzi contro il gasdotto che lo alimenta.

L’azione sembra essere stata compiuta per rappresaglia contro tre raid aerei, apparentemente americani, contro postazioni dell’Aqpa nella provincia di Chabwa, in cui sette miliziani sono stati uccisi.

Tra di loro, l’egiziano Ibrahim al Banna, responsabile mediatico dell’organizzazione, e un figlio di Anwar al Awlaki, un Imam americano-yemenita ispiratore di diversi attentati contro gli Usa, ucciso a sua volta il 30 settembre scorso in un raid aereo.

Secondo diverse testimonianze gli incidenti avvenuti ieri a Sana’a sono scoppiati quando decine di migliaia di oppositori sono partiti in corteo dalla Piazza del Cambiamento, dove godono della protezione delle truppe del generale dissidente Ali Mohsen al Ahmar, fratellastro del presidente Saleh, per spingersi verso il centro della capitale, controllato dalle forze governative.

Le forze di sicurezza li hanno attaccati lungo il Viale al Zubeiri, punto di contatto tra gli schieramenti delle due fazioni militari, e li hanno dispersi con l’uso di candelotti lacrimogeni, cannoni ad acqua ma anche a colpi d’arma da fuoco.

«Nel nostro ospedale sono arrivati più di cento feriti - ha detto alla televisione panaraba Al Jazira il dottor Tariq Noman, capo dei chirurghi che operano in un ospedale da campo montato su Piazza del Cambiamento - e molti di loro erano stati colpiti da proiettili al petto, alla testa e alla schiena, apparentemente sparati da cecchini».

Immagini video diffuse dagli stessi oppositori mostrano l’ospedale affollato da feriti e poi i corpi senza vita di alcuni giovani stesi a terra, con sangue sul petto. Secondo una lettera inviata alle Nazioni Unite dal movimento giovanile di protesta, sono almeno 861 le persone uccise e non meno di 25 mila quelle ferite nei nove mesi di manifestazioni. 

Ma gli oppositori continuano nella loro protesta, che sembra aver ripreso vigore dopo che una dei loro leader, la giornalista Tawakkul Karman, è stata designata come una delle tre vincitrici del Premio Nobel per la Pace.
Intanto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sono cominciate questa settimana consultazioni su un progetto di risoluzione avanzato dalla Gran Bretagna che prevede l’uscita di scena del presidente Saleh in cambio dell’immunità.

G20: Monito all’Europa, prevenire il rischio di un contagio della crisi

da: Euronews


Si è chiuso rilanciando l’allarme per i rischi di un contagio, il G20 di Parigi dedicato alla crisi finanziaria globale.
Usa e Canada, piu di altri, hanno chiesto ai paesi europei di intervenire più radicalmente per contenere la crisi e circoscrivere il rischio del contagio.

Gli Usa in particolare, si sono detti pronti a sostenere lo sforzo che ci si attende da Bruxelles.
 
“Siamo preparati a continuare a sostenere una strategia effettiva in Europa, insieme all’FMI. E se c‘è l’urgenza di nuove risorse del Fondo monetario, o di un uso piu intenso delle risorse esistenti, nel quadro di una strategia europea più decisa, noi siamo pronti a offrire il nostro sostegno”.

Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale ha indicato i punti critici: le banche, i sistemi di sicurezza e di prevenzione, e il deboto greco.

“Se qualcosa, in una situazione che nelle ultime tre settimane tende a peggiorare, se i mercati hanno dato qualche segno di rafforzamento negli ultimi giorni, certamente il quadro generale dell’economia non migliora. Abbiamo sentito forte e chiaro il rischio di contagio soprattutto dei mercati emergenti, e dei paesi a basso reddito”.

I paesi emergenti con in testa il Brasile hanno chiesto ai paesi europei gli interventi necessari per rispondere alla crisi. Una crisi, sottolineano i paesi del Bric, che minaccia anche il loro futuro immediato.

Tripoli, la vita impossibile con gli infiltrati del raiss

da: La Stampa


A due mesi dalla liberazione cellule “dormienti” sparano e cercano il caos. Ma in città uffici e negozi riaprono: «Il problema è che mancano i clienti»


INVIATO A TRIPOLI

L’ ultimo sms è di ieri mattina alle nove, dopo il venerdì della battaglia tra le case di Abu Salim. «Chiunque abbia un’arma senza permesso la deve restituire». È arrivato su tutti i telefonini delle due compagnie libiche, e il giorno prima era per i poliziotti: «Tornate al lavoro». E giovedì per i funzionari delle dogane: «Se non vi presentate in ufficio non sarete più pagati». E mercoledì per i dipendenti del ministero della Giustizia: «Abbiamo bisogno di voi per preparare i processi ai detenuti della Rivoluzione». E poi per i militari: «I comandanti vi aspettano». Ogni giorno così. Un sms per inseguire la normalità che non c’è.

Basta poco e Tripoli sembra davvero quella di fine agosto, con i pick-up neri della Brigata Misurata pronti ad intervenire in ogni quartiere della città. Venerdì a caccia di gheddafiani nel quartiere di Abu Salim. Ieri, alle due del pomeriggio, in quello di Zintan: altri miliziani, o almeno così raccontano, che hanno tentato di rubare un fuoristrada nel parcheggio accanto alla fermata delle corriere. In un niente quartiere bloccato, pick-up che arrivano, urla, raffiche al vento, posti di blocco. «La verità è che a Tripoli ci sono troppe carogne “dormienti”», dice Abu Haktwah, uno dei comandanti militari della città.

Al mattino, proprio all’ora dell’ultimo sms, hanno scoperto che la battaglia di Abu Salim è stata dura. Tre i morti, cinquanta i feriti. Quindici i gheddafiani arrestati. Così in piazza Algeria, nel vecchio palazzo delle Regie Poste Italiane che ora è il Municipio, si rivedono la divisa mimetica e la barba nera di Abdel Hakim Belhaj, il veterano dell’Afghanistan, il Comandante militare più autorevole. Parla alla tv di Tripoli e dice una mezza verità: «La situazione è sotto controllo». Non è così. Ad Abu Salim i 1500 del comandante Haktwah hanno appena circondato il quartiere. Non è finita, la caccia al gheddafiano.

Ci sono i «dormienti», dunque. Quelli che rientrano dopo la fuga di fine agosto. Quelli che hanno portato nastri e cd con gli ultimi ordini del raiss: «Dopo la preghiera del venerdì uscite dalle vostre case e alzate la bandiera verde della nostra Jamahiriya». Ad Abu Salim è andata così. Ed è successo anche nel quartiere di Hadhba. Quanto basta per temere il prossimo, di venerdì: per scoprire se Tripoli deve convivere con le sue paure e la sua anarchia appena nascosta. L’invito alla restituzione delle armi sembra una conferma, Tripoli ne è ancora piena perché i tripolini non si sentono sicuri.

Eppure può capitare di incontrare Alì Tarhouni, il potente ministro dell’Economia e del Petrolio, ai tavolini del Caffè Casa, accanto all’ingresso della Medina. Con un paio di amici e un solo militare a far da scorta, l’aria di chi si sente protetto e tranquillo in una città che di paure non ne deve avere. «Abbiamo aspettato 42 anni per tornare alla libertà, possiamo aver pazienza per un paio di mesi prima del ritorno alla normalità», dice Tarhouni. Era mezzogiorno di venerdì quando si è alzato dal tavolino della sua Tripoli che non ha più paura. Tre ore più tardi è cominciata la battaglia ad Abu Salim.

Nel vecchio corso Vittorio Emanuele, il viale che porta da Piazza dei Martiri a Piazza Algeria, i negozi hanno riaperto come ai tempi del raiss. Le vetrine offrono orologi, vestiti, scarpe, occhiali, telefoni: quel che manca sono i clienti. Nei caffè le tv non sono più sintonizzate sui canali di musica, da venerdì guardano solo «Libya tv», le notizie in diretta dalla città. Abu Salim, l’allarme a Zintan, alle tre del pomeriggio una sparatoria all’uscita della a Medina, di fronte all’hotel Corinthia. Hanno sempre sparato, a Tripoli: raffiche per aria, il loro modo di festeggiare. Ora, ai primi colpi, le macchine rallentano.

È in arrivo Hillary Clinton e il Consiglio nazionale di transizione non si può permettere una Tripoli così fragile, insicura, con le armi nascoste, i «dormienti», le mitragliatrici sui pick-up agli angoli delle strade. Per quel giorno Piazza dei Martiri dovrà essere un trionfo di bandiere, di musica e bancarelle dei gadget. Dovranno sparire le armi. E, almeno per qualche ora, i cortei di protesta contro la Legge 18, quella che lascia al loro posto i burocrati dell’era Gheddafi. Sparirà anche il cartello che c’è sempre stato: «Lasciare al loro posto i simboli della corruzione è tradire il sangue dei nostri Martiri».

All’Ospedale centrale sembrano davvero giornate di fine agosto. I feriti che arrivano da Abu Salim, la portineria che diventa un’armeria, il custode che ritira kalashnikov e ai combattenti in visita ai ricoverati consegna la ricevuta. Ad Hamed, il «tuwar» con la cintura Armani, tocca la numero 27. «È vero - conferma il dottor Hakim -, sembra agosto». Quando aveva lasciato il Pronto Soccorso, finito il turno alla mezzanotte di mercoledì, era andata peggio. Feriti e morti, chi ne ha contati 18 nella zona di Tripoli, per le sparatorie da eccitazione dopo la (falsa) notizia dell’arresto di Mutassim, uno dei figli di Gheddafi.

Non è la Tripoli d’agosto, ma quella di settembre sì. Una città che aspetta, dove la normalità è finzione. Le scuole sono aperte, ma gli insegnanti non hanno i programmi né i libri: se ne parlerà a gennaio. Al momento servono a tener assieme bimbi e ragazzi. I 70 mila universitari, pure loro, aspettano l’inizio delle lezioni. E tutta questa attesa finisce sulle spalle di quell’infaticabile omino che è Abdel Jalil, il presidente del Cnt. Anche ieri, paziente, ha ripetuto che «bisogna aspettare la conquista di Sirte: solo in quel momento potremo proclamare la liberazione della Libia, solo in quel momento la Libia ripartirà in pace».

Sirte. Non Bani Walid, o le oasi di Sabah. Non il deserto del sud, dove il Colonnello continua la fuga zigzagando tra i confini di Niger e Algeria. «Perché Sirte è sul mare, è confine - spiega Jalil-. Messe sotto il nostro controllo le frontiere penseremo a Gheddafi». Ma anche l’infaticabile Jalil sa che queste sono le stesse parole di settembre, che Sirte non è ancora conquistata, che di ultimatum ne sono scaduti almeno sei e di attacchi finali ne sono stati annunciati almeno dodici. E che l’attesa per la caduta di Sirte, a metà ottobre, può sembrare il grande alibi che nasconde le difficoltà della politica.

«Ce la faremo», è la promessa di Jalil. Ma da venerdì deve tornare ad affidarsi ad Abdel Hakim Belhaj, al comandante dal passato islamista che non piace a quelli di Bengasi e di Misurata. Tocca a Belhaj ripulire la capitale dai «dormienti»: «E lo farò con fermezza», assicura in tv. E tocca a Belhaj rimuovere le paure di Tripoli. «I combattenti delle altre città devono andarsene, non voglio più vedere armi nelle strade», era il suo ordine di metà settembre. È passato un mese e venerdì, nella battaglia di Abu Salim, c’erano i combattenti delle Brigate di Bengasi e Misurata. Non se ne sono andati. Per disarmare Tripoli non basta un sms.

Roma devastata, risveglio choc Decine di ricoverati negli ospedali

da: Adnkronos

Il giorno dopo Roma si sveglia sotto choc per le violenze che ieri per ore hanno tenuto sotto scacco la capitale. Mentre nella notte gli ospedali si sono riempiti di feriti, arrivando a contare un centinaio di ricoveri tra manifestanti, violenti e forze dell'ordine, ci si interroga su come sia stato possibile che un gruppo abbia potuto mettere a soqquadro per ore il centro di Roma.


Stamattina a Piazza San Giovanni, per ore ieri nelle mani dei violenti, numerosi turisti fotografano i danni: dai sampietrini divelti, alle vetrine distrutte, alle automobili bruciate per strada.
 
Ieri i primi incidenti sono iniziati già su via Cavour, poco dopo l'avvio del corteo, partito alle 14 da piazza Esedra, per poi intensificarsi via via, fino a piazza San Giovanni. Un nutrito gruppo di persone – si parla di 500 -, tutte vestite di nero, a volto coperto e con i caschi in testa si sono ‘infiltrate’ nel corteo e sono entrate in azione mettendo a ferro e fuoco la Capitale. 

Non è servito a nulla l’intervento di manifestanti pacifici che, una volta iniziati gli scontri, hanno cercato di bloccare il gruppo di violenti che aveva dato alle fiamme le auto in via Cavour e sfondato diverse vetrine. Nel mirino degli incappucciati – che hanno lanciato bombe carta, petardi, lacrimogeni, bottiglie, sanpietrini e altri oggetti – anche cameramen, fotoreporter e cineoperatori che stavano riprendendo la manifestazione. 

Dopo ore di cariche e lanci di fumogeni, piazza San Giovanni e via Merulana sono state liberate dai violenti, ma gli assalti sono continuati all'Esquilino e a piazza Vittorio. Diverse le cariche della polizia, che hanno lanciato lacrimogeni e azionato gli idranti per disperdere i violenti. Un blindato dei carabinieri è stato incendiato. Fiamme e fumo si sono levati dal mezzo e i manifestanti hanno comunque continuato ad attaccarlo con fumogeni e bombe carta. I due militari all'interno sono riusciti a scendere in tempo e si sono messi in salvo. 

Altri mezzi sono stati bloccati e circondati e fatti oggetto di lanci di pietre, spranghe e sassi. Scene di paura e panico tra la gente che era venuta da tutta Italia per manifestare pacificamente a piazza San Giovanni. Qualcuno è scoppiato in lacrime. 

Un gruppo ha attraversato piazza San Giovanni con le mani alzate gridando 'no alla violenza' e 'vergogna' mentre i violenti continuavano a lanciare oggetti contro i blindati delle forze ordine. I ragazzi si sono seduti a terra, a una ventina di metri dai blindati delle forze dell'ordine. Sono decine i feriti trasportati subito in ospedale. Alcuni manifestanti sono stati soccorsi e medicati sul posto nell'area di San Giovanni. Quasi tutti i feriti sono stati trasportati all'Umberto I e al San Giovanni e quasi tutti sono stati medicati per contusioni, escoriazioni e ferite lacero contuse.

Cieca per la Commissione medica, fa la parrucchiera

da: IN DIES


Ha colpito molto la scoperta fatta in questi giorni dalla Guardia di Finanza, che ha scovato una falsa invalida, la quale, pur percependo l'indennità di accompagnamento, faceva la parrucchiera e girava normalmente in bicicletta.
La presunta cieca, che evidentemente cieca non lo è, è una sessantaduenne originaria di Bisignano (Cosenza), che abita a Lugo (Ravenna).
Ora è stata denunciata per truffa aggravata ai danni dello Stato.
Aveva avuto il riconoscimento da parte della Commissione medica della cecità parziale nel 1986 ottenendo la pensione di invalidità. Successivamente le era stato dato concesso l'assegno di accompagnamento con tutti i benefici previsti dalla legge 104 del 1992.

«Star Academy», decisa la chiusura

da: Corriere della Sera

MILANO - E alla fine, l' annuncio: dopo solo tre puntate chiude «Star Academy», il programma del giovedì sera di Rai2. La finale non sarà serale ma coinciderà con l' appuntamento pomeridiano e andrà in onda sabato 22 ottobre. Tra una settimana dunque, con «Sabato Academy», in onda alle 15.30 su Rai2, si conclude lo sfortunato talent show partito il 29 settembre e condotto da Francesco Facchinetti (foto) «uno dei giovani volti su cui punta la Rete e per cui sono già allo studio nuovi progetti», si legge nella nota dell' ufficio stampa Rai che annuncia la fine anticipata del programma. Una finale sottotono, con la proclamazione del vincitore nella puntata pomeridiana. Del resto gli ascolti sono stati in costante calo, passando dal 6.41% di share del debutto al 5.94 della seconda puntata al 4.61 della terza.

Tetraplegico muove braccio meccanico con la sola forza del pensiero

da: Biomedi@


 Tim Hemmes, bloccato da un incidente di moto nel 2004, ha toccato la mano della fidanzata grazie un chip

MILANO - Un uomo tetraplegico è riuscito a muovere un braccio meccanico con la sola forza del pensiero. È successo a Pittsburgh, in Pennsylvania: Tim Hemmes, bloccato da un incidente di moto nel 2004, ha toccato la mano della sua fidanzata grazie a un progetto da 100 milioni di dollari finanziato dal dipartimento della difesa americano.
L'ESPERIMENTO - L'esperimento, spiegano diversi giornali locali, è durato un mese: al soggetto è stato impiantato un chip, molto più piccolo di quelli utilizzati in altri esperimenti simili, nella corteccia motoria, e sono iniziati i test per decodificare le onde cerebrali e tradurle in impulsi per il braccio meccanico. Ora che si è avuta la conferma che la strada intrapresa è giusta il chip verrà tolto a Hemmes, che aveva l'autorizzazione della Food and Drugs Administration solo per un mese, ma inizieranno nuove sperimentazioni su altri soggetti tetraplegici: «Siamo a un punto critico con questa tecnologia - spiega Michael McLoughlin della Johns Hopkins University, che ha progettato il braccio - l'obiettivo è sperimentare movimenti sempre più complessi».

sabato 15 ottobre 2011

Indignati in piazza dall'Asia all'Europa. A Londra fermato Julian Assange

da: Repubblica


Nella capitale britannica Scotland Yard blocca il fondatore di Wikileaks, proibendogli di indossare la maschera simbolo della rivolta. Cinquemila persone radunate a Berlino. Cortei anche a Francoforte, Madrid, Amsterdam e nelle principali città europee. Manifestazioni nelle capitali dell'Estremo oriente, davanti ai palazzi della borsa e delle banche centrali


ROMA - Wellington, Sydney, Tokyo, Manila, Taipei, Hong Kong. La sveglia del movimento degli indignati è suonata inizialmente dall'altra parte del pianeta con le mobilitazioni in Asia e Oceania. Solo alcune delle 951 città di 82 Paesi che hanno espresso la loro adesione alla manifestazione globale di oggi sul sito http://15october.net/ 1.

Asia e Oceania. Nella città australiana quasi duemila persone, tra le quali rappresentanti degli aborigeni, partiti comunisti e organizzazioni sindacali, si sono date appuntamento fuori dalla banca centrale, obiettivo di molte delle contestazioni in tutto il mondo. Più ristretta la partecipazione per le strade di Tokyo dove alcune centinaia di cittadini hanno manifestato contro la gestione della crisi nucleare dopo l'incidente di Fukushima. Cortei anche a Taiwan dove i manifestanti si sono radunati di fronte al grattacielo Taipei 101, sede della borsa, cantando "Noi siamo il 99% di Taiwan", e a Hong Kong, nel distretto finanziario, dove almeno 500 persone si sono riunite per esprimere la propria rabbia contro gli eccessi e le disugualianze del capitalismo dei liberi mercati. Indignati in piazza anche a Manila, dove un piccolo gruppo di manifestanti si è diretto verso l'ambasciata degli Stati Uniti gridando "Abbasso l'imperialismo americano" e "Filippine non in vendita".
 
Europa. Berlino, Francoforte, Londra, Amsterdam e Madrid, sono le piazze principali della protesta europea
oltre a quella di Roma 2. Nella capitale tedesca i manifestanti si sono radunati davanti alla porta di Brandeburgo per dirigersi verso la cancelleria per leggere un manifesto. A Francoforte, oltre seimila persone si sono radunate davanti alla sede della Banca Centrale Europea, mostrando striscioni con scritto "Non svendiamo la democrazia alla Bce" e "Spezziamo la dittatura del capitalismo".
 
A Londra, migliaia di indignati si sono radunati nella City, dove è sceso in piazza anche Julian Assange, che ha arringato la folla 3 con un megafono: "Questo movimento - ha detto- non è per la distruzione della legge, ma per la costruzione della legge". Il fondatore di Wikileaks è stato fermato dalla polizia, che gli ha proibito di indossare la maschera simbolo della protesta 4 degli indignati. Alcuni manifestanti hanno dato vita a tafferugli con la polizia nel tentativo di raggiungere la sede della borsa, obiettivo della contestazione.
 
A Madrid, cinque colonne di persone sono partite dalle zone periferiche della città alla volta della Puerta del Sol, luogo simbolico della protesta spagnola, occupato la scorsa primavera, in cui i manifestanti hanno intenzione di passare la notte tra sabato e domenica. "Il problema è la crisi, ribellati", si leggeva sullo striscione di testa del corteo partito da Leganes, a circa 15 chilometri a sud di Madrid. Su un altro striscione è stato invece rilanciato uno degli slogan preferiti dei manifestanti spagnoli: "Se non ci lasciate sognare, non vi lasceremo dormire".
 
Ad Amsterdam un migliaio di persone si è riunito davanti alla borsa, mentre altrettanti sono scesi in piazza all'Aja. A Zurigo, 500 persone si sono radunate a Paradeplatz, luogo emblematico della finanza svizzera, dove si trovano le sedi dei colossi bancari svizzeri Ubs e Credit Suisse.

I manifestanti (pacifici) contro la violenza degli incappucciati

da: Il Corriere della Sera


MILANO - «Fuori! Fuori!». Uralno gli Indignati a Roma contro i teppisti e gli incappucciati. «No violenza». Dal corteo gremito di gente (in pace) si leva questo grido. I manifestanti attaccano le persone con i caschi, i cappucci (quelli che coprono il volto), con le mazze e le bandiera dei Carc. La parte pacifica della manifestazione intuisce subito che si tratta di gente che si prepara a devastare vetrine e magari a ingaggiare scontri con la polizia. «Vigliacchi! Sono buoni tutti con il viso coperto!», continua a urlare la folla. Gli incappucciati guardano per il momento attoniti e fermi.

MOMENTI DI TENSIONE - Continua l'agitazione tra la parte pacifica del corteo e un gruppo di incappucciati con evidenti intenzioni di compiere devastazioni. Dopo aver urlato insulti («buffoni, fuori dal corteo!»), un gruppetto della folla ha ingaggiato discussioni con qualcuno degli incappucciati, sfociate in un parapiglia all'altezza di largo Visconti Venozza a Roma. Una parte del corteo ha seguito il gruppo dal volto coperto con l'intenzione di impedirgli di usare le mazze.

CONSEGNATI TRE BLACK BLOC - È tanta l'indignazione tra i manifestanti della capitale per i saccheggi. Tanto che un gruppo ha fermato e consegnato alla polizia tre black bloc che si erano resi protagonisti di devastazioni su via Cavour. Circa 200 manifestanti del corteo degli Indignati si sono arroccati sotto la statua di San Francesco e hanno urlano «no violenza» all'indirizzo dei teppisti. Mentre continuano le cariche e l'uso degli idranti contro le frange violente, in molti applaudono quando i violenti vengono fermati con idranti. Confusione tra i manifestanti, che per un momento hanno creduto che la polizia stesse per caricarli su via Labicana. Fuga di decine di persone per vicoli, a partire da via Pietro Verri: ma a correre contro di loro erano degli incappucciati che avevano precedentemente attaccato la caserma.




L'attesa tremante di una felicità eterna

da: La Bussola Quotidiana - Giovanni Fighera

Quello di Ada Negri (1870-1945) rappresenta un «caso letterario», proprio come quello di Svevo, ma dagli esiti assolutamente antitetici. Se il triestino, scrittore sconosciuto fino a pochi anni prima della morte (1928), entrerà nel novero dei grandi scrittori europei del Novecento, la poetessa trovò la fama fin da giovane e cadde nel Secondo dopoguerra nella dimenticanza e smemoratezza della critica. Le sue poesie non solo non si studiano a scuola, ma neppure compaiono sulle antologie, segno di una immeritata censura che colpì una delle poche poetesse del nostro panorama letterario.

A soli ventidue anni (1892) Ada Negri già pubblicava la sua prima raccolta Fatalità per Treves, una delle maggiori case editrici dell’epoca. L’anno precedente era uscita la prima raccolta del trentaseienne Pascoli (Myricae). Sofia Bisi Albini parlò di «poesia impressionistica» al riguardo dei componimenti della Negri recensendo la sua raccolta su Il Corriere della Sera, mentre già nel 1894 le veniva assegnato il premio Giannina Milly, primo di tanti riconoscimenti. L’anno successivo usciva la seconda raccolta, Tempeste. Una vita intensa e dai toni profondamente drammatici caratterizza questi anni: il matrimonio, la nascita di un primo figlio e, poi, di Vittoria che morirà a solo un mese (1900), la morte del fratello (1903). Seguiranno la raccolta Maternità (1904), la separazione dal marito, la sua attività umanitaria, altre sillogi di poesie, di racconti, il romanzo autobiografico. Il premio Mussolini (1931) non è che il preludio all’apoteosi: la medaglia d’oro del Ministero dell’educazione (1938) e la nomina ad accademica d’Italia (1940), prima ed unica donna ad ottenere un simile riconoscimento.

La natura umana è desiderio di compimento e di risposta alla domanda di felicità e di amore. Per questo la vita è attesa di un’avventura, nel senso etimologico del termine, attesa di qualcosa che, non costruito e non progettato da noi, irrompa e sopraggiunga dall’esterno. La poesia di Ada Negri vive di questa consapevolezza e si traduce spesso nell’attesa di un amore pieno. Nel componimento «A colui che non è venuto» la poetessa scrive: «Io t’aspettavo fin dal giorno in cui/di fiorire m’accorsi all’improvviso,/ primula di marzo. E venne uno, con viso/dolce. Ma io mi dissi: «Non è lui».//Pioggia e sol, spine e rose, fieno e paglia/m’apportarono gli anni. Anche l’amore./Non te!... Qualcun ti assomigliò, che il cuore/aggrovigliar mi seppe in gemmea maglia://ed io mi persi a capofitto, giù,/col desiderio folle d’annientarmi/tra forti braccia che potean spezzarmi/come la creta. – Ma non eri tu. –». La poetessa si sente nata per questo sconosciuto e ignoto amante. Lo sconforto per l’unione impossibile («Non venisti, non vieni, non t’attendo/ più. Domani morrò. La vita ha fretta») non riesce a spegnere la fiamma e la segreta speranza che un giorno l’amore sarà totale: «Ma forse/ di là, nell’ombra ove uno spirito tocca/l’altro in silenzio, io troverò la bocca/ che solo in sogno la mia bocca morse».

Questo desiderio di infinito, di pienezza, di senso, di capire dove stiamo andando, questo abisso di vita, di pienezza, di non accontentarsi è la vera statura dell’uomo. La poesia appartiene alla raccolta Esilio (1914). La poetessa si è appena separata dal marito e dall’anno successivo si dedicherà in maniera indefessa all’assistenza ai feriti di guerra della Prima guerra mondiale. Vent’anni più tardi, nella raccolta Il dono (1935), nella poesia che dà il nome all’intera silloge, Ada Negri manifesta la stessa attesa: «Il dono eccelso che di giorno in giorno/ e d’anno in anno da te attesi, o vita/ (e per esso, lo sai, mi fu dolcezza/ anche il pianto), non venne: ancor non venne. Ad ogni alba che spunta io dico: “È oggi”: ad ogni giorno che tramonta io dico: “Sarà domani”».

La giovinezza è un atteggiamento del cuore, non un dato anagrafico. Ci sono cuori che vivono pieni di domanda e di attesa e altri che, già a vent’anni, non si aspettano più nulla. Ada Negri è testimone che la facoltà di sorprendersi è l’atteggiamento proprio della giovinezza che può permanere nel cuore, anche quando l’età avanza. La giovinezza è, infatti, una dimensione dello spirito. La poetessa lo esprime molto bene in «Mia giovinezza», appartenente a Fons amoris (1939-1943). Ada Negri scrive, rivolgendosi alla gioventù: «Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo/all’essere. Sei tu, ma un’altra sei:/senza fronda né fior, senza il lucente/ riso che avevi al tempo che non torna,/ senza quel canto. Un’altra sei, più bella».

Questa giovinezza, non più accompagnata dall’appariscenza esteriore, è divenuta più consapevole e si è fortificata nel dolore, più capace di riconoscenza e di gratitudine, piena di speranza, fiduciosa e tesa a ciò che non inganna e non passa: «Ami, e non pensi esser amata: ad ogni/ fiore che sboccia o frutto che rosseggia/o pargolo che nasce, al Dio dei campi/ e delle stirpi rendi grazie in cuore./ Anno per anno, entro di te, mutasti/ volto e sostanza. Ogni dolor più salda/ ti rese: ad ogni traccia del passaggio/ dei giorni, una tua linfa occulta e verde/ opponesti a riparo. Or guardi al Lume/ che non inganna: nel suo specchio miri/ la durabile vita. E sei rimasta/ come un’età che non ha nome: umana/ fra le umane miserie, e pur vivente/ di Dio soltanto e solo in Lui felice.// O giovinezza senza tempo, o sempre/ rinnovata speranza, io ti commetto/ a color che verranno: - infin che in terra/ torni a fiorir la primavera, e in cielo/ nascano le stelle quand’è spento il sole». In realtà l’atteggiamento di domanda stupita non è naturale solo del bambino, non è fanciullesco, ma è proprio di una persona che sia interessata al reale, cioè che sia pienamente coinvolta nella vita.

Lo stupore non ci fa fermare all’immagine immediata, ma ci sprona ad andare oltre l’apparenza, a cogliere per così dire l’oltranza, il significato, la ragione, la provenienza di ciò che vediamo e che accade. Allora l’atto della conoscenza diventa un impeto, un movimento, una tensione e una propensione verso il Mistero che si coglie nella realtà e che si desidera conoscere. Nella poesia di Ada Negri questa tensione si tramuta, spesso, in preghiera: «Fammi uguale, Signore, a quelle foglie/ moribonde che vedo oggi nel sole/ tremar dell’olmo sul più alto ramo./ Tremano, sì, ma non di pena: è tanto/ limpido il sole, e dolce il distaccarsi/ dal ramo per congiungersi alla terra» (da «Pensiero d’autunno» appartenente alla raccolta Vespertina del 1930).

Quello della foglia
è un movimento delicato di ritorno a casa. Il tramonto della vita è l’avvicinarsi al Mistero che la poetessa ama con tutto il cuore tanto che confessa in «Atto d’amore» (Il dono 1935): «Non seppi dirti quant’io t’amo, Dio/ nel quale credo, Dio che sei la vita/ vivente, e quella già vissuta e quella/ ch’è da viver più oltre».

La sfida è culturale, non politica

da: La Bussola Quotidiana - S.E.R. Luigi Negri


Cerco di immedesimarmi nella complessità e nella contraddittorietà della situazione italiana, culturale, sociale, politica e, di riflesso anche ecclesiale, cercando di percepire il tipo di sfida che viene alla mia presenza di pastore, di guida di una comunità ecclesiale.

Ora è indubbio che come ho detto tante altre volte - ma mi sembra giustissimo ribadirlo – quella cui siamo di fronte è una gravissima crisi di carattere culturale. Culturale nel senso sostanziale della parola cultura, che io ho imparato congiuntamente da don Luigi Giussani e da Giovanni Paolo II: quella impostazione sostanziale della vita umana come senso, come significato, come bellezza, come giustizia, come bene. Questa cultura primaria – così la chiamava Giovanni Paolo II nell’indimenticabile allocuzione all’Unesco del 1° luglio 1980 - questa cultura di base è sostanzialmente sparita dal nostro paese.

Ed è anche l’occasione per dire che chi ha spazzato via la cultura del nostro popolo è questa specie di ideologia, blanda come formulazioni ma durissima come realizzazioni, che possiamo ascrivere a quel fermentare di posizioni massoniche, razionaliste, consumiste, comuniste (o meglio, materialiste) che sono ferreamente dominate dal massmediatico. I mass media – recuperando una bellissima immagine di Benedetto XVI in Germania – hanno fatto piovere sulla nostra fede e sul nostro popolo la pioggia acida di questa ideologia del massmediaticamente corretto.

E’ un vuoto, è un vuoto che si ammanta di perbenismo, di rispettabilità, di sviscerata devozione alle istituzioni sociali da cui deriverebbero tutti i diritti. In pratica siamo tornati all’assolutismo di stato, all’assolutismo della società, i diritti non sono recepiti dall’uomo nell’ambito della sua coscienza nel confronto aperto con il mistero, con Dio. No, i diritti sono quelli che la società riconosce, promuove. Ecco quindi servito Benedetto XVI con i suoi valori non negoziabili. L’abolizione dei cosiddetti valori non negoziabili, così come formulati dal Papa, sarà di fatto il fil rouge dei programmi di tutte le formazioni socio-politiche, soprattutto quelle che si collocano o si collocheranno a sinistra. E non ci si illuda di perseguire così il bene comune. Il bene comune - che è una realtà ampia e variegata che si attua in certe precise condizioni di carattere sociale - è l’espressione di un cuore più profondo. E Il cuore più profondo sono i valori non negoziabili.

C’è dunque un disagio, che è un disagio fortissimo, perché mancando la cultura mancano gli uomini, mancano le personalità capaci di assumersi le proprie responsabilità, capaci di dare giudizi, capaci di porre azioni conseguenti.

La politica è una miseria, ma quale altro campo della nostra vita culturale e sociale non mostra questa miseria? Questa assenza di personalità significative, questo morire ogni giorno nella polemica politica o culturale nella banalità della cosiddetta vita privata che diventa, per gli uni e per gli altri senza molta differenza, una questione di Stato.

Allora io credo che la Chiesa debba rifuggire la tentazione di intervenire velocemente per cercare di risolvere velocemente le cose. Questi non sono problemi che si risolvono velocemente, queste crisi hanno bisogno di un lungo processo educativo . E il processo educativo non si fa con le autostrade, il processo educativo si fa camminando per sentieri, salendo greppi – come dicono nei posti dove sono vescovo -, faticando giorno dopo giorno perché la cultura di base che la Chiesa propone diventi forma della personalità, riferimenti valoriali ultimi, obiettivi personali, familiari, sociali. L’educazione non si improvvisa e soprattutto non è frutto di qualche slogan ben detto o di qualche pubblicazione di grande o di piccolo respiro. Dobbiamo tornare a educare il nostro popolo a partire dalla fede in modo che il fenomeno della evangelizzazione diventi educazione, l’educazione diventi formazione di personalità.

Certo, la società è in crisi nel suo aspetto politico, ma la società non è forse in crisi nel suo aspetto familiare? La crisi sociale è un aspetto di questa impressionante crisi familiare per cui le famiglie, distrutte nella maggior parte della loro realtà, sono incapaci di dare ai giovani e ai più giovani degli orientamenti sicuri per vivere, e quindi quelle ragioni per vivere senza la formulazione delle quali non esiste possibilità di educazione.

Il compito è formare un popolo di laici che si assumano poi la responsabilità dei giudizi e delle azioni conseguenti; si deve fuggire la tentazione di creare un popolo o un pseudo popolo di credenti che poi accetti di essere telecomandato dall’ecclesiasticità nei punti di maggiore responsabilità. Non dobbiamo in nessun modo sostituirci ai laici nell’impresa totalmente loro di portare dentro una società come la nostra il loro contributo originale di intelligenza, di passione, di educazione, di capacità costruttiva.

Io credo che sia una grande sfida. Non possiamo disperderci su altre sfide pretendendo che noi siamo sfidati nel campo delle indicazioni alla soluzione dei problemi concreti sociali e politici, o che siamo sfidati nella individuazione di strategie a breve o lungo termine per la soluzione dei problemi socio-politici. Noi siamo sfidati sull’essenza della nostra identità, della nostra missione. Giovanni XXIII ha detto che se la Chiesa non è maestra non è neanche madre, se è madre non può che essere maestra. E’ una strada, lunga ma affascinante, lungo la quale è possibile incontrare persone vicine o lontane, ma che sono disponibili alla conversione dell’intelligenza e del cuore.

Sembra un discorso astratto? Credo ci sia una parte dell’ecclesiasticità che sbufferà sentendo queste cose come se queste cose fossero astratte. Ma questa è l’astrazione che cambia la storia. La concretezza di tanti, anche cattolici, finisce per morire nella storia.