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domenica 16 ottobre 2011

Tripoli, la vita impossibile con gli infiltrati del raiss

da: La Stampa


A due mesi dalla liberazione cellule “dormienti” sparano e cercano il caos. Ma in città uffici e negozi riaprono: «Il problema è che mancano i clienti»


INVIATO A TRIPOLI

L’ ultimo sms è di ieri mattina alle nove, dopo il venerdì della battaglia tra le case di Abu Salim. «Chiunque abbia un’arma senza permesso la deve restituire». È arrivato su tutti i telefonini delle due compagnie libiche, e il giorno prima era per i poliziotti: «Tornate al lavoro». E giovedì per i funzionari delle dogane: «Se non vi presentate in ufficio non sarete più pagati». E mercoledì per i dipendenti del ministero della Giustizia: «Abbiamo bisogno di voi per preparare i processi ai detenuti della Rivoluzione». E poi per i militari: «I comandanti vi aspettano». Ogni giorno così. Un sms per inseguire la normalità che non c’è.

Basta poco e Tripoli sembra davvero quella di fine agosto, con i pick-up neri della Brigata Misurata pronti ad intervenire in ogni quartiere della città. Venerdì a caccia di gheddafiani nel quartiere di Abu Salim. Ieri, alle due del pomeriggio, in quello di Zintan: altri miliziani, o almeno così raccontano, che hanno tentato di rubare un fuoristrada nel parcheggio accanto alla fermata delle corriere. In un niente quartiere bloccato, pick-up che arrivano, urla, raffiche al vento, posti di blocco. «La verità è che a Tripoli ci sono troppe carogne “dormienti”», dice Abu Haktwah, uno dei comandanti militari della città.

Al mattino, proprio all’ora dell’ultimo sms, hanno scoperto che la battaglia di Abu Salim è stata dura. Tre i morti, cinquanta i feriti. Quindici i gheddafiani arrestati. Così in piazza Algeria, nel vecchio palazzo delle Regie Poste Italiane che ora è il Municipio, si rivedono la divisa mimetica e la barba nera di Abdel Hakim Belhaj, il veterano dell’Afghanistan, il Comandante militare più autorevole. Parla alla tv di Tripoli e dice una mezza verità: «La situazione è sotto controllo». Non è così. Ad Abu Salim i 1500 del comandante Haktwah hanno appena circondato il quartiere. Non è finita, la caccia al gheddafiano.

Ci sono i «dormienti», dunque. Quelli che rientrano dopo la fuga di fine agosto. Quelli che hanno portato nastri e cd con gli ultimi ordini del raiss: «Dopo la preghiera del venerdì uscite dalle vostre case e alzate la bandiera verde della nostra Jamahiriya». Ad Abu Salim è andata così. Ed è successo anche nel quartiere di Hadhba. Quanto basta per temere il prossimo, di venerdì: per scoprire se Tripoli deve convivere con le sue paure e la sua anarchia appena nascosta. L’invito alla restituzione delle armi sembra una conferma, Tripoli ne è ancora piena perché i tripolini non si sentono sicuri.

Eppure può capitare di incontrare Alì Tarhouni, il potente ministro dell’Economia e del Petrolio, ai tavolini del Caffè Casa, accanto all’ingresso della Medina. Con un paio di amici e un solo militare a far da scorta, l’aria di chi si sente protetto e tranquillo in una città che di paure non ne deve avere. «Abbiamo aspettato 42 anni per tornare alla libertà, possiamo aver pazienza per un paio di mesi prima del ritorno alla normalità», dice Tarhouni. Era mezzogiorno di venerdì quando si è alzato dal tavolino della sua Tripoli che non ha più paura. Tre ore più tardi è cominciata la battaglia ad Abu Salim.

Nel vecchio corso Vittorio Emanuele, il viale che porta da Piazza dei Martiri a Piazza Algeria, i negozi hanno riaperto come ai tempi del raiss. Le vetrine offrono orologi, vestiti, scarpe, occhiali, telefoni: quel che manca sono i clienti. Nei caffè le tv non sono più sintonizzate sui canali di musica, da venerdì guardano solo «Libya tv», le notizie in diretta dalla città. Abu Salim, l’allarme a Zintan, alle tre del pomeriggio una sparatoria all’uscita della a Medina, di fronte all’hotel Corinthia. Hanno sempre sparato, a Tripoli: raffiche per aria, il loro modo di festeggiare. Ora, ai primi colpi, le macchine rallentano.

È in arrivo Hillary Clinton e il Consiglio nazionale di transizione non si può permettere una Tripoli così fragile, insicura, con le armi nascoste, i «dormienti», le mitragliatrici sui pick-up agli angoli delle strade. Per quel giorno Piazza dei Martiri dovrà essere un trionfo di bandiere, di musica e bancarelle dei gadget. Dovranno sparire le armi. E, almeno per qualche ora, i cortei di protesta contro la Legge 18, quella che lascia al loro posto i burocrati dell’era Gheddafi. Sparirà anche il cartello che c’è sempre stato: «Lasciare al loro posto i simboli della corruzione è tradire il sangue dei nostri Martiri».

All’Ospedale centrale sembrano davvero giornate di fine agosto. I feriti che arrivano da Abu Salim, la portineria che diventa un’armeria, il custode che ritira kalashnikov e ai combattenti in visita ai ricoverati consegna la ricevuta. Ad Hamed, il «tuwar» con la cintura Armani, tocca la numero 27. «È vero - conferma il dottor Hakim -, sembra agosto». Quando aveva lasciato il Pronto Soccorso, finito il turno alla mezzanotte di mercoledì, era andata peggio. Feriti e morti, chi ne ha contati 18 nella zona di Tripoli, per le sparatorie da eccitazione dopo la (falsa) notizia dell’arresto di Mutassim, uno dei figli di Gheddafi.

Non è la Tripoli d’agosto, ma quella di settembre sì. Una città che aspetta, dove la normalità è finzione. Le scuole sono aperte, ma gli insegnanti non hanno i programmi né i libri: se ne parlerà a gennaio. Al momento servono a tener assieme bimbi e ragazzi. I 70 mila universitari, pure loro, aspettano l’inizio delle lezioni. E tutta questa attesa finisce sulle spalle di quell’infaticabile omino che è Abdel Jalil, il presidente del Cnt. Anche ieri, paziente, ha ripetuto che «bisogna aspettare la conquista di Sirte: solo in quel momento potremo proclamare la liberazione della Libia, solo in quel momento la Libia ripartirà in pace».

Sirte. Non Bani Walid, o le oasi di Sabah. Non il deserto del sud, dove il Colonnello continua la fuga zigzagando tra i confini di Niger e Algeria. «Perché Sirte è sul mare, è confine - spiega Jalil-. Messe sotto il nostro controllo le frontiere penseremo a Gheddafi». Ma anche l’infaticabile Jalil sa che queste sono le stesse parole di settembre, che Sirte non è ancora conquistata, che di ultimatum ne sono scaduti almeno sei e di attacchi finali ne sono stati annunciati almeno dodici. E che l’attesa per la caduta di Sirte, a metà ottobre, può sembrare il grande alibi che nasconde le difficoltà della politica.

«Ce la faremo», è la promessa di Jalil. Ma da venerdì deve tornare ad affidarsi ad Abdel Hakim Belhaj, al comandante dal passato islamista che non piace a quelli di Bengasi e di Misurata. Tocca a Belhaj ripulire la capitale dai «dormienti»: «E lo farò con fermezza», assicura in tv. E tocca a Belhaj rimuovere le paure di Tripoli. «I combattenti delle altre città devono andarsene, non voglio più vedere armi nelle strade», era il suo ordine di metà settembre. È passato un mese e venerdì, nella battaglia di Abu Salim, c’erano i combattenti delle Brigate di Bengasi e Misurata. Non se ne sono andati. Per disarmare Tripoli non basta un sms.

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