Viaggio nella zona "liberata" della Libia fra i giovani protagonisti della rivolta mentre in televisione esplode la rabbia di Gheddafi
TOBRUK - Per convincere soldati e poliziotti a fraternizzare con la piazza, i manifestanti hanno cominciato col dare alle fiamme il commissariato. Quel gesto ha reso Tobruk la prima città caduta nelle mani degli insorti. Ora è proprio davanti alle rovine di quell'edificio che da una settimana i manifestanti continuano a raccogliersi, mentre pennacchi di fumo si stagliano sull'orizzonte cristallino del Mediterraneo, innalzati da un deposito di munizioni bombardato dalle truppe guidate da un figlio di Muhammar Gheddafi.
È accaduto anche ieri pomeriggio, mentre il leader concionava in tv agghindato nella tunica marrone del beduino, nel patetico proposito di restituire spessore alla leggenda da lui confezionata riguardo alla sua nascita, per richiamare alla fedeltà i leader tribali che lo abbandonano: lui che si dice figlio di pastori della tribù dei Qadhdhafiya, nato nel 1942 sotto una tenda beduina nei deserti della Sirte.
Quando il suo ghigno sulfureo riempie lo schermo della tv, pochi si raccolgono a guardarlo, se non i più anziani nei caffè attorno alla piazza dove adesso sventola alto il tricolore con la mezzaluna "dell'indipendenza" al posto del vessillo verde introdotto da Gheddafi nel '52 come simbolo della "rivoluzione popolare". Verde come il Libro pubblicato dal tiranno nel 1975 per regolare la Jamahiriyyia, l'immaginario Stato delle masse. È lo stesso che, scolpito in copie di dimensioni monumentali, punteggia il Paese e infatti là fuori i giovani ora stanno demolendone
uno a colpi di piccone. "Ecco la giusta fine di quel libro assurdo", si sgolano i ragazzi. I tonfi del cemento che rotola a terra fanno da sordo controcanto alle raffiche di mitra che riempiono il cielo di Tobruk, sparate per festeggiare "la liberazione". È accaduto anche ieri pomeriggio, mentre il leader concionava in tv agghindato nella tunica marrone del beduino, nel patetico proposito di restituire spessore alla leggenda da lui confezionata riguardo alla sua nascita, per richiamare alla fedeltà i leader tribali che lo abbandonano: lui che si dice figlio di pastori della tribù dei Qadhdhafiya, nato nel 1942 sotto una tenda beduina nei deserti della Sirte.
Quando il suo ghigno sulfureo riempie lo schermo della tv, pochi si raccolgono a guardarlo, se non i più anziani nei caffè attorno alla piazza dove adesso sventola alto il tricolore con la mezzaluna "dell'indipendenza" al posto del vessillo verde introdotto da Gheddafi nel '52 come simbolo della "rivoluzione popolare". Verde come il Libro pubblicato dal tiranno nel 1975 per regolare la Jamahiriyyia, l'immaginario Stato delle masse. È lo stesso che, scolpito in copie di dimensioni monumentali, punteggia il Paese e infatti là fuori i giovani ora stanno demolendone
Sono loro, i giovani, gli eroi della Nuova Rivoluzione, i grandi protagonisti dei moti libici. Per questo, quando la voce di Gheddafi arriva dai televisori, e lui ringhia "Muhammar Gheddafi è il capo della rivoluzione, sinonimo di sacrifici fino alla fine dei giorni" esplodono le invettive degli shebab, i ragazzi: "Per ironia, il "capo della rivoluzione popolare" sta per essere rovesciato dalla vera Rivoluzione popolare della Libia", fanno in coro. "L'uomo è disperato", ironizzano con un misto di rabbia e disgusto per la "stolta furbizia" del leader, che mette le mani avanti: "Se potessi dimettermi lo farei, ma non sono presidente. Però ho il mio fucile e mi batterò fino all'ultima goccia di sangue".
Il coro quasi si smorza, incredulo, nell'ascoltare Gheddafi che nega le stragi di questi giorni: "Noi non abbiamo ancora fatto ricorso alla forza. Non ho ordinato di sparare un singolo proiettile", ripete. Lo fa sullo sfondo della mattanza dei mille morti denunciati questo pomeriggio dalle ong, a fronte dei 400 calcolati dalla Federazione internazionale della Lega dei diritti umani. Un gruppo di medici mostra alcuni proiettili raccolti sul bitume. Uno di loro ha in pugno un proiettile calibro 50, lo stesso calibro usato dalla Nato per trapassare i muri. "Questo spiega l'osceno stato di certi cadaveri, maciullati", dice.
Ma quando la voce di Gheddafi rimbomba, indirizzandosi ai giovani con l'epiteto di "topi di fogna"; quando li minaccia: "Restituite immediatamente le armi, se no ci saranno mattanze"; e poi evoca i massacri di Tienanmen, nell'89 a Pechino, e la fine di Fallujah, il bastione sunnita iracheno distrutto dagli americani nel 2004, anche gli anziani gli lanciano epiteti di "Kalb, kalb", cane, cane, "rognoso e rabbioso". Seguiti da "Abbasso il macellaio". Il frastuono copre il discorso del "re dei re d'Africa" (il titolo di cui s'è fregiato nel 2009 a capo dell'Unione africana) quando lui promette ai "rivoltosi la pena di morte", legge i codicilli del Libro verde, e si appella ai libici: "Voi che mi amate, voi libici tutti, uomini e donne uscite dalle case, attaccate i topi di fogna nei loro rifugi, purgate la Libia centimetro per centimetro, casa per casa, strada per strada. Prendeteli, arrestateli, consegnateli alla polizia. Milioni mi difenderanno, fatevi sentire e gridate "Sacrificheremo l'anima e il sangue per il nostro leader".
"Muhammar Gheddafi non è una persona normale, che si possa avvelenare o abbattere con una rivoluzione", urla ancora e poi resta senza fiato il rais. Scrosci di risate in piazza e nei caffè. "Il muro della paura è caduto", commentano di rimando. Finché al tentativo di sminuirli: "Stanno soltanto copiando l'Egitto e la Tunisia", gli shebab rispondono con lo slogan universale delle rivoluzioni arabe: "Erhal, erhal", vattene, vattene.
Sono loro che hanno pagato il prezzo più alto, e che si preparano a prendere in mano le redini del Paese. Loro, che vedi pattugliare i posti di blocco che puntellano la Libia liberata, ossia tutta la fascia orientale del Paese. Indossano gli abiti più strampalati. Felpe, maglioni a righe, giacconi da cacciatore. Hanno tutti un cappello in testa, e ce ne sono dalle fogge più strane. Molti, forse per ridicolizzare quelle di Gheddafi e del suo "amico" Berlusconi, si fasciano la testa di coloratissime bandane. Scherzano, ridono, ballano, pur essendo tutti armati, chi di Kalashnikov, chi di rivoltelle, chi di mazze ferrate. Dopo aver controllato il portapacchi delle auto, di solito benedicono il conducente con una frase del Corano.
E sono ancora una volta loro che accolgono i giornalisti con entusiasmo: "Perché avete tardato?". "Finalmente", dicono, possono consegnare i video dei massacri: immagini a volte troppo raccapriccianti, di corpi esplosi in pezzi. Altri filmati confermano le sparatorie sui dimostranti.
Alcuni gruppi sono già partiti verso Tripoli, mentre il movimento si sposta verso occidente a dare man forte alla protesta. In senso inverso, cioè in direzione del confine egiziano, incrociamo pulmini carichi fino all'inverosimile. Sono gli immigrati che tornano a casa. Riportano notizie di Tripoli, di elicotteri che continuano a sparare sui manifestanti, di "orrende sevizie da parte delle milizie di Gheddafi, di notti di terrore coi mercenari che sparano su tutto e tutti, mentre i feriti restano a dissanguarsi sull'asfalto, perché è impossibile soccorrerli sotto i tiri dei proiettili". I lavoratori stranieri vanno a imbottigliarsi alla frontiera di Musaid: aspettano in fila almeno seimila persone. Altri due milioni pensano di espatriare.
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