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venerdì 18 febbraio 2011

L’illusione del contagio arabo

  
Dentro la piazza yemenita


Sana’a, dal nostro inviato. C’è uno spettacolo insolito all’incrocio fra Sherre Sittin e Sherre Rabat. I negozi e i ristoranti aperti persino durante la preghiera del venerdì e sovranamente indifferenti ai tumulti delle settimane scorse oggi sono deserti e nascosti dalle imposte di metallo. Il passaparola magico che regola la vita della capitale dello Yemen ha messo in guardia: è in marcia una corteo di protesta, e questa volta sarà differente, questa volta sarà come nelle città a sud di Aden e Taizz, dove da due giorni si contano i primi morti. Si salvi chi può, pure i venditori ambulanti si dileguano. Quasi subito, dall’altro lato del lungo rettilineo, si materializzano i più feroci oppositori dei manifestanti, che non sono gli agenti della polizia, ma i picchiatori a noleggio del presidente Ali Abdullah Saleh. E dietro i picchiatori i fuoristrada che trasportano i kit per trasformare chiunque in un controrivoluzionario fatto e finito su due piedi, le bandiere nazionali da sventolare, i poster con la faccia severa del presidente Ali Abdullah Saleh da innalzare e le mazze da distribuire e adoperare. I veicoli di lusso sono gli stessi che a operazione compiuta portano via in fretta – ma dove? – i capi squadra più importanti.

La disoccupazione al 40 per cento
ha dato loro un bel mestiere: squadristi a cottimo in favore del regime trentennale del presidente Saleh. Sono una legione compatta di straccioni in età militare, ma c’è pure il teppistello di dieci anni con il bastone e il leone sdentato di sessant’anni che ancora se la cava a menare le mani. Sono la brigata mobile del governo yemenita, senza nulla da perdere, pagata sottobanco per sbrigare l’opera di repressione che invece il governo non può più assolvere senza gettare alle ortiche le apparenze – e le apparenze da salvare sono importanti, c’è in ballo un viaggio del presidente a Washington il prossimo mese, e la settimana scorsa è arrivata la prima tranche di un finanziamento da 70 milioni di dollari contro i terroristi di al Qaida.

Sono la versione yemenita dei cammellieri che due settimane fa hanno attaccato a frustate i manifestanti egiziani in piazza al Cairo, ma sono stati più furbi e hanno occupato preventivamente la piazza Tahrir di Sana’a – si chiama così anche qui – per evitare che diventasse il centro simbolico dell’opposizione. Dovunque ci sia una protesta, appaiono loro a spegnerla con la violenza.
Questa volta però l’operazione è più difficile. I manifestanti sono una folla, riempiono la strada per più di un chilometro, sono in maggioranza studenti universitari e per un giorno hanno smesso quell’aria che fa quasi tenerezza di chi crede – come gli studenti di tutto il mondo – di essere qualcosa di più e invece è qualcosa di meno. In mezzo a loro c’è chi estrae un’arma e spara in aria tra le grida di entusiasmo degli altri. Per cinque settimane – appena è arrivata la notizia della ribellione tunisina – hanno manifestato pacificamente in giro per Sana’a e sono stati zittiti con le maniere forti. Adesso occupano tutta un’arteria vitale della città e scambiano colpi furiosi con gli avversari. Anche dall’altra parte si ascoltano pochi spari, e sarà così ogni ora durante tutta la durata degli scontri, perché le armi in Yemen circolano liberamente. Ma il grosso si fa a pietrate. Sassi che volano dappertutto, in lunghe parabole arcuate e lente o in tiri diretti e insidiosi, sfondano quello che è stato incautamente lasciato all’aperto e fanno sbandare a turno e più volte i due schieramenti. Lontana, dietro i tifosi del governo, la polizia osserva senza intervenire. E’ come se ci fosse un patto sottile non scritto e la violenza piena fosse per ora trattenuta, perché le conseguenze sarebbero troppo estreme.

Per ora, anche se tutti promettono altre giornate di violenza, la rivolta in Yemen impallidisce di fronte a quello che già sta succedendo in Libia, dove i morti negli scontri sono sei, e nel Bahrein. Dalla capitale Manama l’inviato del New York Times, Nicholas Kristof, scrive di un’operazione brutale dell’esercito per sgombrare la centrale piazza delle Perle trasformata in accampamento. I soldati avrebbero giustiziato a sangue freddo con colpi alla testa alcuni manifestanti, avrebbero impedito i soccorsi alle ambulanze e avrebbero bloccato tutti i giornalisti all’aeroporto, per levarsi di torno i testimoni stranieri.
La relativa facilità del cambio di regime in Tunisia è stata illusoria. Durante i diciotto giorni dell’Egitto ci sono stati trecento morti, anche se la vastità delle folle in rivolta e la tenacia disarmata di piazza Tahrir hanno fatto passare in secondo piano il sangue. In altri paesi, dove la sicurezza è più aggressiva e il numero dei manifestanti è sparuto, il paradigma della rivoluzione araba sta diventando un altro. Sul contagio arabo incombe non lo spirito dell’89, quando tutti i paesi dell’area sovietica si liberarono quasi assieme del giogo di Mosca, ma piuttosto il ricordo dell’Iraq nel 1991, quando, subito dopo la sconfitta nella guerra del Golfo, gli sciiti tentarono di ribellarsi a Saddam Hussein. Credevano, ma la loro era una percezione errata, che il regime dopo la guerra disastrosa con gli americani fosse più vulnerabile, e credevano che la sollevazione popolare avesse i numeri per farcela. Ma i rapporti di forza non mentono mai e la repressione militare baathista si chiuse su di loro con tutta la spietata efficienza che non aveva mostrato davanti alle divisioni del generale Norman Schwarzkopf. Il senso di marea inevitabile, di un popolo che cresce e con solennità prevale sulle difese del regime, è potentissimo quando c’è. Ma quando non c’è, quando mancano i numeri e i regimi hanno studiato in fretta la lezione di Mubarak e si sono ripromessi di non essere così deboli, cortei di manifestanti e squadre di controrivoluzionari sono intrappolati in un’intifada micidiale.

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