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lunedì 21 marzo 2011

Bruno, l’ultimo italiano di Tripoli, che fa la guardia ai nostri morti

di: Fausto Biloslavo

Il custode del cimitero dove riposano 6.500 connazionali ha resistito pure alla cacciata del 1970: "E non me ne andrò neanche adesso"

Tripoli - Un tè nel deserto con Gheddafi, le bombe americane sul bunker del colonnello, la rivolta contro il regime sono solo alcune delle avventure di Bruno Dalmasso, uno degli ultimi italiani di Tripoli. A 77 anni, con un berretto azzurro dell'Italia e le quattro stelle di campione del mondo, Dalmasso ci accoglie nel cimitero, di cui è il custode, che ospita i resti di 6499 connazionali. Una piccola oasi di pace nella capitale libica dove riposano giovani patrioti massacrati dagli ottomani, principessine d'altri tempi e gente comune dal periodo coloniale a oggi. In una cripta è rimasta intatta la storica lapide del maresciallo dell'aria «Italo Balbo quadrumviro governatore generale della Libia ». Abbattuto, ufficialmente per sbaglio, «nel cielo di Tobruch 28-6-1940», come si legge sul marmo bianco. 

Dalmasso è nato a Bordighera, ma ama ricordare di essere stato «concepito in Eritrea» ai tempi delle colonie. Nell'Africa orientale ci sarebbe rimasto per sempre se Menghistu Haile Mariam, non avesse preso il potere con un golpe. «Lo conoscevo bene, ma è acqua passata », racconta Dalmasso, che proprio dal dittatore etiopico in persona si è beccato una gragnuola di calci, dopo essere stato sbattuto in galera perché filo eritreo e poi rispedito in Italia. Dalmasso resiste in Italia due mesi e il mal d'Africa lo porta in Libia a dirigere un cantiere a Bengum, l'anticamera dell' inferno in mezzo al deserto: «I libici lo chiamano “il posto del vento”e ci sono ancora i resti di un forte italiano del 1913». Un giorno arriva un giovane ufficiale al volante di un maggiolino. «Era il colonnello Gheddafi - racconta il veterano della Libia- Ci siamo messi a prendere un chai (il tè) nel deserto. Era giovane, gioviale, rideva. Penso che per il suo paese abbia fatto molto. Io ho visto come la Libia è cresciuta e si è sviluppata ». Dalmasso parla ed è come se scorresse la storia. Nel 1986 quando il presidente americano Ronald Reagan ordina di bombardare il regno di Gheddafi lui abita a 600 metri da Bab al Azizia, la cittadella fortificata del colonnello nel cuore di Tripoli. «Il 15 aprile, alle due di notte, le squadriglie sono arrivate dal mare. Il cielo era rosso per i traccianti della contraerea - ricorda Dalmasso - Le prime bombe hanno incenerito la casa di Abu Nidal ( il terrorista palestinese mandante dalla strage di Fiumicino del 1985 e di altri sanguinosi attentati nda)». Poi è toccato al bunker di Gheddafi. «Una bomba sola, di una tonnellata dicevano, è piombata giù come un colpo secco seguito da un boato fortissimo e da una luce, come un gigantesco flash nel buio della notte». In quegli anni Dalmasso va spesso al cimitero, mezzo abbandonato dopo la cacciata degli italiani nel 1970, per leggere le lapidi sepolte dalle erbacce. Il posto si chiama Hammangi, che significa bagno turco. Con la compagna etiopica, Abersah Tegu Mari, comincia a riesumare e catalogare i connazionali sepolti a Tripoli e nel resto della Libia. I resti di 28mila militari, che Gheddafi non voleva, compresi 5mila ascari eritrei che hanno combattuto al nostro fianco, sono stati traslati al sacrario militare d'oltremare di Bari. 

Per il suo impegno Dalmasso è stato nominato Cavaliere della Repubblica e neppure nei giorni della rivolta abbandona il cimitero italiano: «Con le tombe ci aiutavano dei manovali egiziani, ma sono scappati quando è iniziata la rivolta -si rammarica il connazionale-Il 17 febbraio il consolato ci ha consigliato di restare chiusi in casa, ma nessuno si aspettava una sollevazione del genere». Anche Dalmasso, come molti libici della capitale, se la prende con i media: «Quando ho sentito che stavano bombardando il centro della capitale mi è preso un colpo: sono passato in macchina proprio dove avrebbe dovuto esserci la strage, ma non c’era un solo segno dell'intervento aereo. Era una balla». Nei giorni della rivolta a Tripoli gli amici libici lo «scortano » al cimitero. 

La sua targa ha il numero 15, quello degli italiani e qualche scalmanato potrebbe prenderla a sassate. «Ha ragione il ministro Maroni: gli americani se ne stiano fuori - sbotta Dalmasso - Se la Nato o gli Stati Uniti intervengono si rischia un altro Afghanistan. Devono risolverla fra libici. In fondo a nessuno conviene la secessione, con il gas a ovest ed il petrolio a est». Il pericolo della valanga migratoria è concreto: «Sono centinaia di migliaia gli immigrati africani in fuga dalla Libia con il miraggio dell'Italia». Aiutandosi con un bastone Dalmasso tra le tombe. I resti dei 6499 italiani riposano in loculi divisi per lettera dell'alfabeto con un numero inciso sul marmo. Il numero corrisponde al nome riportato su grandi lastre trasparenti appese alla parete. Quaglio Maria, Patanè Bruno, Campagna Carmela si legge scoprendo che i primi commercianti italiani in questa fetta d'Africa furono sepolti nel 1831. Gastone Terreni era un patriota anti turco di vent' anni massacrato dagli ottomani il 21 giugno 1908. Ancora prima, nel 1879, la principessina Zenaide De Goyzueta, figlia dei marchesi di Toverena morì a soli 10 anni, 3 mesi e 20 giorni. Suo padre, nobile napoletano, era console di Umberto I re d'Italia. La madre si chiamava Livia Rimsky-Korsakov, sorella del grande compositore russo. La salma di Balbo è stata riportata in patria e sepolta ad Orbetello, ma a Tripoli si conserva gelosamente la lapide. L'ultima tomba italiana è del 2008. Sul marmo bianco si legge: Annamaria Buzzi di Milano. Dalla storia del cimitero italianosalta fuori una vicenda incredibile, quella di un Hannibal il cannibale italiano, mai identificato perché cacciato con altri connazionali, che utilizzava carne umana per le salsicce. Nella cripta della cappella è sepolta anche Innocente Halima, una suora che prima era musulmana. Il regime ha fatto levare il Cristo della grande crocein ferro all'ingresso del cimitero, perché urta le credenze islamiche. 

Dalmasso aveva la possibilità di lasciare la Libia in rivolta con l'evacuazione degli altri 1400 connazionali. «Ho detto di no. La Libia è il mio paese - spiega - Mi hanno accettato e rispettato per 36 anni. Non mi sembra giusto abbandonare i libici nel momento del pericolo. Se la situazione precipitasse dividerò il loro destino. A 77 anni non ho paura di nulla». www.faustobiloslavo.eu

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