Suo marito Piergiorgio si è spento cinque anni fa esatti, il 20 dicembre 2006. E da allora è toccato a lei, Mina Welby, portare avanti la battaglia per il cosiddetto “diritto a morire”. Che poi, a ben vedere, dovrebbe chiamarsi “diritto ad essere uccisi”, a suicidarsi. Tanto vale parlare chiaro allora, no? Del resto, che le cose stiano così è confermato dalla stessa signora Welby che, in una intervista rilasciata aRepubblica, ha fatto esplicito riferimento – e senza alcuna preoccupazione - all’esistenza, tra i medici italiani, di «una corrente che fa ricerca sul suicidio assistito», tema prioritario perché – ha aggiunto – presto «non tutti avremo la possibilità di un accompagnamento nel fine vita con cure palliative costosissime» [1]. Tradotto: dato che le cure costano, tanto vale affidarsi alla «ricerca sul suicidio assistito». Il che, oltre ad inquietare, conferma due cose.
Primo. Se dietro il testamento biologico c’è l’eutanasia, dietro l’eutanasia c’è il suicidio assistito. E’ una concatenazione logica fin troppo evidente: non si scappa.
Secondo. In aggiunta all’apologia del diritto a morire, l’altra vera ragione per la quale taluni si battono per l’eutanasia è prettamente economica: il malato ridotto a numero, anzi, a costo. Altro che dignità, consenso informato, autodeterminazione. Tutte parole, soltanto parole. La realtà è che l’uomo laico e secolarizzato non sa che farsene di sé stesso, figurarsi dell’ammalato o dell’anziano. Di qui la convenienza, appunto, a fare «ricerca sul suicidio assistito». Anche se non è affatto chiaro cosa ci sia poi da ricercare, nel suicidio. Che è e rimane una fuga disperata. Nient’altro.
Nessun commento:
Posta un commento