La Missione è quella di creare un'associazione tra la Comunicazione e la Cultura. Spesso questi due ambiti non si incontrano (il comunicatore non fa vera cultura e l'accademico non sa comunicare in modo efficace). Noi vorremmo far incrociare i due binari per portarli a formarne uno unico.

Vorremmo stimolare l'aspetto critico del fruitore, per comunicare cultura e per acculturare la comunicazione.

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Qui potrete trovare ogni tipo d'informazione e saremo lieti di stimolare un sano e doveroso dibattito per ogni singolo articolo, con il fine d'incrociare nel massimo rispetto di pareri ed opinioni diversi tra loro, per giungere così ad una proposta d'incontro tra i molteplici aspetti di una società multiculturale
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sabato 21 gennaio 2012

«Qui è accaduto un miracolo»

da: La Bussola Quotidiana


di Paola Bonzi


«Mi ha detto di essere incinta , ma di quante settimane?»
«Dodici settimane e tre giorni, mi è stato comunicato in occasione dell’ecografia», mi risponde Elisa confusa. «E, come mai siamo arrivati così all’ultimo?», chiedo.


Da alcuni minuti sto ascoltando Elisa e la sua storia; è una delle rare volte che la segreteria per l’attuazione della legge 194 dà l’indicazione di venire al Centro di Aiuto alla Vita.
Elisa, piuttosto imbarazzata, mi racconta di essere già in possesso del certificato per poter abortire:
«Sa, dovevo fare l’interruzione ancora in dicembre, prima di Natale, ma, all’ultimo minuto, non me la sono sentita e sono andata via. Ho riflettuto molto in questo periodo, ma i problemi sono tali e tanti che, dopo questi giorni in cui hò cercato la soluzione senza trovarla, ho un’altra volta deciso di interrompere la gravidanza e sono tornata sui miei passi. Non c’è via d’uscita!».
La solita morsa allo stomaco, attimi di silenzio denso. Non riuscirò mai ad abituarmi che si possa impedire a un bambino di nascere.


«Elisa, vuole raccontarsi?»
Titubante inizia la sua narrazione: «Ho ventitre anni, sono iscritta al quarto anno di università a cui tengo molto, sono rimasta incinta e tutti vogliono che io abortisca, tanto che la mia mamma mi ha mandato fuori di casa».
«E il padre del bambino?»
«Oh, lui! Ha una specie di piccolo maneggio in cui lavora, ma con i tempi che corrono …. Viviamo in una casa, due locali  fuori Milano, che costa seicento euro al mese, da cui posso comunque raggiungere abbastanza facilmente la mia facoltà. Poi, dobbiamo anche vivere. Temo molto che la mia famiglia non voglia nemmeno più pagare la retta dell’università e, per me, sarebbe davvero una grande delusione».


Poi, ancora:
«Alla mia famiglia lui non va bene; forse sognavano per me il principe azzurro ma Marco è un qualunque fantino che ha voluto provare a emanciparsi mettendosi in proprio e ha dieci anni più di me. Sicuramente lo considerano un fallito!».
Di nuovo silenzio; tra me penso che una mamma dovrebbe essere la persona più aperta all’accoglienza e, all’accoglienza soprattutto di una figlia in difficoltà! Evidentemente non è così scontato e io sono certamente un’ingenua.
La guardo come se volessi accarezzarla e le dico:
«Forse ciò che serve è un aiuto economico!» E, facendo i conti,c on un certo senso di frustrazione, le propongo l’aiuto regionale del Fondo Nasko  spiegandole che, nella sua situazione, possiamo presentare alla Regione Lombardia, un progetto di aiuto che erogherà duecentocinquantaeuro mensili per diciotto mesi. Ciò dovrà poter contare su una relazione di aiuto di tipo psicopedagogico da costruire insieme mese dopo mese.
La guardo con una certa apprensione.


«Come le sembra?»
Rivolgendole questa domanda provavo un certo imbarazzo; come potevo ipotizzare che così sarebbe stata in grado di affrontare quella grave situazione che la spingeva ad abortire!
Con poca voce e molta vergogna, Elisa rispose: «La ringrazio, è meglio che niente. A Marco hanno proposto un posto di lavoro sempre con i cavalli in un’altra città; gli metterebbero a disposizione anche una stanza; il mio pensiero è, però, sempre l’opportunità di raggiungere l’università a cui tengo davvero molto e che è è piuttosto impegnativa».


Nonostante tutto, gli occhi le si erano inumiditi:
«È la prima volta che qualcuno non mi dice di smetterla di rompermi la testa e di andare ad abortire che così non ci sarebbero problemi di sorta perché potrei tornare a casa con i miei genitori e continuare la mia vita di studentessa. La mamma di Marco mi ha consigliato di assumere la RU 486 e di farla finita».
Così adulta e emancipata, mentre mi confidava queste cose, mi sembrava una bimba sperduta in cerca di un senso per poter continuare a vivere la sua vita. Due telefonate, una in amministrazione e una al nostro presidente, per conoscere l’attuale  situazione economica del CAV, e venire a sapere che, naturalmente, eravamo messi male come al solito. Ma, con il cuore grande del Centro di Aiuto alla Vita, mi lasciavano libera di fare gli abituali salti nel buio.


«Elisa mi guardi, vogliamo cercare un’altra strada?»
Il suo atteggiamento fiducioso e pieno di aspettative, mi portano a dire:
«Proviamo così: duecentocinquanta euro li avrà sicuramente dalla regione e, altrettanti, ne avrà dal nostro Centro di Aiuto alla Vita; secondo me, lei potrà restare nella casa dove abitate ora, e così riuscirà a continuare a frequentare le sue lezioni. Marco, accettando il lavoro nuovo, facendo un po’ di avanti e indietro, si organizzerà per permettervi di vivere dignitosamente. Che ne dice?».
«Posso prendere un fazzoletto?» risponde con la voce rotta, «mi sento come se mi avessero tolto un grande peso dalle spalle! Mi appare così strano che a qualcuno stiano a cuore i miei problemi, le mie difficoltà, i miei pensieri e i miei desideri. Qui, però, è accaduto e vivo tutto ciò come un miracolo».


«E, allora, facciamolo del tutto questo miracolo!», soggiungo raccogliendo la sfida di questa situazione difficile che la vita, ancora una volta, mi sbatteva addosso: «le prometto che se la sua famiglia non pagherà le tasse universitarie, ce ne faremo carico noi. Questo bambino che aspetta di poter nascere, non le deve essere d’inciampo, lui vuole la sua mamma contenta. Quindi, Elisa, lei deve impegnarsi per diventare la migliore veterinaria sul mercato!»

Le emozioni di quel momento non sono adeguatamente riferibili: alzandosi dal divano dove era stata seduta come sugli spilli fino a quel momento, “Mi permette di abbracciarla” chiede, e, questa volta le lacrime liberatorie, bagnando anche il mio viso, dicevano che la Vita aveva vinto ancora, e un altro bambino sarebbe nato grazie alla solidarietà. Un passo alla volta, un bambino alla volta.

lunedì 7 novembre 2011

Mai più morte, fino alla morte

da: L'Ottimista

La straordinaria testimonianza del ginecologo Antonio Oriente.
In principio fu Bernard Nathanson. Parliamo del famoso ginecologo statunitense che al suo attivo collezionò circa 75.000 aborti, fino a quando non si rese conto dell’“umanità” del feto e non fece un vero cammino di conversione che lo portò a scrivere il libro The hand of God (“La mano di Dio”). Da quel momento in poi, il suo lavoro è divenuto totalmente a favore della vita nascente. Ma “la mano di Dio” continua ad operare in ogni continente, e anche in Italia, abbiamo il nostro Nathanson: è il dottor Antonio Oriente (foto). Anche lui, come Nathanson, viveva la sua quotidianità praticando aborti di routine. Abbiamo ascoltato la sua testimonianza nel corso di un convegno dell’AIGOC. Sì, perché lui oggi è il vicepresidente e uno dei fondatori di questa Associazione Italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici… Praticamente una totale inversione di tendenza, rispetto al modo precedente di vivere la sua professione.
 
La sua testimonianza inizia così: “Mi chiamo Antonio Oriente, sono un ginecologo e, fino a qualche anno fa, io, con queste mani, uccidevo i figli degli altri”. Gelo. Silenzio. La frase pronunciata è secca, senza esitazione, lucida. La verità senza falsi pietismi, con la tipica netta crudezza e semplicità di chi ha capito e già pagato il conto. Di chi ha avuto il tempo di chiedere perdono.
 
Due cose colpiscono di questa frase e sono due enormi verità: la parola “uccidevo”, che svela l’inganno del termine interruzione volontaria, e la parola “figli”. Non embrioni, non grumi di cellule, ma figli. Semplicemente. E questa sua pratica quotidiana dell’aborto, il dottor Oriente la riteneva una forma di assistenza alle persone che avevano un “problema”.
 
“Venivano nel mio studio – racconta – e mi dicevano: Dottore, ho avuto una scappatella con una ragazzetta… io non voglio lasciare la mia famiglia, amo mia moglie. Ma ora questa ragazza è incinta. Mi aiuti… Ed io lo aiutavo. Oppure arrivava la ragazzina: Dottore, è stato il mio primo rapporto… non è il ragazzo da sposare, è stato un rapporto occasionale. Mio padre mi ammazza: mi aiuti!”. Ed io la aiutavo. Non pensavo di sbagliare”.
 
Ma la vita continuava a presentare il conto: lui, ginecologo, i bambini li faceva anche nascere. Sua moglie pediatra i bambini degli altri li curava. Ma non riuscivano ad avere figli propri. Una sterilità immotivata ed insidiosa era la risposta alla sua vita quotidiana. “Mia moglie è sempre stata una donna di Dio. È grazie a lei e alla sua preghiera se qualcosa è cambiato. Per lei non avere figli era una sofferenza immensa, enorme. Ogni sera che tornavo la trovavo triste e depressa. Non ne potevo più. Dopo anni di questo calvario, una sera come tante, non avevo proprio il coraggio di tornare a casa. Disperato, piegai il capo sulla mia scrivania e cominciai a piangere come un bambino”.
 
E lì, la mano di Dio si fa presente in una coppia che il dottor Oriente segue da tempo. Vedono le luci accese nello studio, temono un malore e salgono. Trovano il dottore in quello stato che lui definisce “pietoso” e lui per la prima volta apre il suo cuore a due persone che erano solo dei pazienti, praticamente quasi degli sconosciuti. Gli dicono: “Dottore, noi non abbiamo una soluzione al suo problema. Abbiamo però da presentarle una persona che può dargli un senso: Gesù Cristo”. E lo invitano ad un incontro di preghiera. Che lui dribbla abilmente.
 
Passano dei giorni ed una sera, sempre incerto se tornare a casa o meno, decide di avviarsi a piedi e, nel passare sotto un edificio, rimane attratto da una musica. Entra, si trova in una sala dove alcune persone (guarda caso il gruppo di preghiera della coppia che lo aveva invitato) stanno cantando. Nel giro di poco tempo, si ritrova in ginocchio a piangere e riceve rivelazione sulla propria vita: “Come posso io chiedere un figlio al Signore, quando uccido quelli degli altri?”.
 
Preso da un fervore improvviso, prende un pezzo di carta e scrive il suo testamento spirituale: “Mai più morte, fino alla morte”. Poi chiama il suo “Amico” e glielo consegna, ammonendolo di vegliare sulla sua costanza e fede. Passano le settimane e il dottor Oriente comincia a vivere in modo diverso. Comincia anche a collezionare rogne, soprattutto tra i colleghi nel suo ambiente. In certi casi il “non fare” diventa un problema: professionale, economico, di immagine.
 
Una sera torna a casa e trova la moglie che vomita in continuazione. Pensa a qualche indigestione ma nei giorni seguenti il malessere continua. Invita allora la moglie a fare un test di gravidanza ma lei si rifiuta con veemenza. Troppi erano i mesi in cui lei, silenziosamente, li faceva quei test e quante coltellate nel vedere che erano sempre negativi... Ma dopo un mese di questi malesseri, lui la costringe a fare un esame del sangue, che rivela la presenza del BetaHCG: sono in attesa di un bambino!

Sono passati degli anni. I due bambini che la famiglia Oriente ha ricevuto in dono, oggi sono ragazzi. La vita di questo medico è totalmente cambiata. È meno ricco, meno famoso, una mosca bianca in un ambiente dove l’aborto è ancora considerato “una forma di aiuto” a chi, a causa di una vita sregolata o di un inganno, vi ricorre. Ma lui si sente ricco, profondamente ricco. Della gioia familiare, dei suoi valori, dell’amore di Dio, quella mano che lo carezza ogni giorno facendolo sentire degno di essere un “Suo figlio”.