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giovedì 8 dicembre 2011

«Quel che non vi dicono su Chiesa e ICI»

da: “La Bussola Quotidiana” del 23-08-2011

Cari amici cattolici, vi sarà certamente capitato in questi giorni di ricevere critiche dal vostro amico non credente di turno (o credente ma non praticante, o credente praticante ma non osservante…) sul rapporto tra Chiesa e denaro, magari utilizzando i grandi cavalli di battaglia dei cari laicisti: esenzione ICI e 8xmille alla Chiesa cattolica, tra tutti.
Ebbene, se rientrate nella categoria di chi, in tale circostanza, non ha saputo rispondere alcunché (se non, con malcelato imbarazzo, che la Chiesa è fatta di peccatori), provo ad offrirvi alcuni spunti di riflessione. Intendiamoci, che la Chiesa sia fatta di peccatori è una verità e nessuno può metterla in discussione: che questo, però, significhi la irrimediabile verità di ogni critica, beh, forse qualche dubbio può sorgere anche ai non cristiani (detti anche, per un noto pseudo-matematico, non “cretini”).
Visto allora che la figura dei cretini a noi (a differenza di altri) non piace farla, vediamo di approfondire i termini della questione.
Questione ICIPartiamo con il primo problema, peraltro recentemente tornato a galla dopo la decisione della Commissione europea di riaprire la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia su questo punto.
Una premessa, a scanso di equivoci: la CEI e il Vaticano non sono la stessa cosa (sic!).
Con un po’ della vostra pazienza (vi assicuro che ne vale la pena) proviamo a capire come stanno le cose.
La legge
Nel 1992 lo Stato italiano ha istituito l’ICI, l’imposta comunale sugli immobili. Nello stesso intervento normativo (decreto legislativo n. 504/1992) sono state previste delle esenzioni: “alla Chiesa cattolica”, penserete subito. Sbagliato: l’esenzione ha riguardato tutti gli immobili utilizzati da un “ente non commerciale” e destinati “esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”.
Dunque, secondo la legge, perché venga applicata l’esenzione è necessario che si realizzino due condizioni:
1.   Il proprietario dell’immobile deve essere un “ente non commerciale”, ossia non deve distribuire gli utili e gli avanzi di gestione ed è obbligato, in caso di scioglimento, a devolvere il patrimonio residuo a fini di pubblica utilità. In pratica tutto quello che un ente non commerciale “guadagna” (con attività commerciali, con richieste di rette o importi, con la raccolta di offerte, con l’autofinanziamento dei soci, con i contributi pubblici, ecc.) deve essere utilizzato per le attività che svolge e non può essere intascato da nessuno.
2.   L’immobile deve essere destinato “esclusivamente” allo svolgimento di una o più tra le otto attività di rilevante valore sociale individuate dalla legge.
Evidente ed apprezzabile la finalità delle esenzioni: lo Stato ha voluto agevolare tutti quei soggetti che svolgono attività sociale secondo criteri di “no profit”.
La novità della Corte di cassazioneOra, mentre per più di dieci anni queste norme sono state applicate dai Comuni senza alcun problema, i soliti noti hanno iniziato dei contenziosi e nel 2004 la Corte di Cassazione, pronunciandosi su un immobile di un istituto religioso destinato a casa di cura e pensionato per studentesse, ha fornito una interpretazione non prevista dalla legge (… tutto ciò non vi ricorda qualcosa?): i giudici infatti hanno aggiunto un nuovo requisito per avere diritto all’esenzione sia necessario anche che l’attività “non venga svolta in forma di attività commerciale”.
Quale è la novità? È chiaro che cambia tutto se si sposta l’attenzione dalla natura “commerciale” dell’ente proprietario (come richiesto dalla norma) alla natura della “attività commerciale” effettuata (come innovato dalla Corte). Per capire la singolarità della decisione si devono tenere presenti due aspetti:
1.   dal punto di vista tecnico, le attività sono considerate commerciali non quando producono utili, ma quando sono organizzate e rese a fronte di un corrispettivo, cioè con il pagamento di una retta o in regime di convenzione con l’ente pubblico: è  evidente che alcune delle attività  elencate dalla legge (si pensi a quelle sanitarie o didattiche) di fatto non possono essere che “commerciali” in questo senso;
2.   “commerciale” non vuol dire “con fine di lucro”: per la legge, infatti, è “commerciale” anche l’attività nella quale vengono chieste rette tanto contenute da non coprire neanche i costi: in pratica, l’esenzione perde ogni senso se interpretata così.
In parole povere, se chiedi anche un cent sei fuori dall’esenzione! E zac, rimane fuori praticamente tutto il no-profit! Via il bambino con l’acqua sporca (a scanso di equivoci, la Chiesa rientrerebbe ovviamente nella seconda voce).
Prima interpretazione autentica
Davanti agli effetti disastrosi che una tale interpretazione avrebbe creato nel mondo del “no profit”, lo Stato italiano è intervenuto con una interpretazione autentica (art. 7 del decreto legge n. 203/2005, governo Berlusconi), ribadendo la sufficienza dei due requisiti iniziali e stabilendo che, ai fini dell’esenzione dall’ICI, non rilevava l’eventuale commercialità della modalità di svolgimento dell’attività.
Denuncia della Commissione EuropeaL’interpretazione autentica non deve essere piaciuta, poiché nello stesso anno questa disposizione è stata impugnata di fronte alla Commissione europea denunciandola come “aiuto di Stato”. In pratica, sul presupposto che gli enti non commerciali che svolgono quelle attività socialmente rilevanti sono comunque da considerare “imprese” a tutti gli effetti, si è sostenuto che l’esenzione costituirebbe una distorsione della concorrenza nei confronti dei soggetti (società e imprenditori) che svolgono le stesse attività con fine di lucro soggettivo.
Come a dire: perché mai deve essere agevolato chi offre servizi assistenziali senza guadagnarci (eh già, perché mai …?!).
Seconda intepretazione autentica e istituzione della Commissione ministerialePer escludere ogni dubbio lo Stato è intervenuto con una seconda interpretazione autentica (art. 39 del D.L. n. 223/2006, governo Prodi), con la quale è stato precisato che l’esenzione deve intendersi applicabile se l’attività è esercitata in maniera “non esclusivamente commerciale”. Il nuovo intervento appare molto equilibrato, perché precisa il senso dell’esenzione permettendo di evitare abusi.
Peraltro, presso il Ministero dell’economia e delle finanze è stata poi istituita una commissione con il compito di individuare le modalità di esercizio delle attività che, escludendo una loro connotazione commerciale e lucrativa, consenta di identificare gli elementi della “non esclusiva commercialità”.
Chiusura del fascicolo per due volte e recente riapertura
Alla luce della seconda interpretazione autentica e della maggiore definizione dei limiti grazie alla Commissione appositamente istituita, la Commissione europea ha chiuso la procedura di infrazione con esclusione di ogni “aiuto di Stato”. Successivamente ne è stata aperta un’altra, sempre sulla stessa linea, e anche questa è stata chiusa per chiara infondatezza.
Ad ottobre di quest’anno [2010], però, il Commissario europeo per la concorrenza (Joaquín Almunia, spagnolo, predecessore del simpatico Zapatero al partito socialista), nonostante le due archiviazioni ha riaperto una ennesima procedura di infrazione. Staremo a vedere.
Qualche riflessione
Bene. Ora abbiamo gli strumenti per rispondere alle gentili domande del nostro ipotetico (ma neanche tanto) amico.
- “L’esenzione è riservata agli enti della Chiesa cattolica”.
In realtà abbiamo visto che la legge destina l’esenzione a tutti gli enti non commerciali, categoria nella quale rientrano certamente gli enti ecclesiastici, ma che comprende anche: associazioni, fondazioni, comitati, onlus, organizzazioni di volontariato, organizzazioni non governative, associazioni sportive dilettantistiche, circoli culturali, sindacati e partiti politici (che sono associazioni), enti religiosi di tutte le confessioni e, in generale, tutto quello che viene definito come il mondo del “non profit”. Non si dimentichi inoltre che fanno parte degli enti non commerciali anche gli enti pubblici.
- “L’esenzione vale per tutti gli immobili della Chiesa cattolica”.
Come abbiamo evidenziato sopra, l’esenzione richiede la compresenza di due requisiti: quello soggettivo, dove rileva la natura del soggetto (essere “ente non commerciale”) e quello oggettivo, dove rileva la destinazione dell’immobile (utilizzarlo “esclusivamente” per le attività di rilevanza sociale individuate dalla legge ed in modo “non esclusivamente commerciale”). Non è vero, quindi, che tutti gli immobili di proprietà degli enti non commerciali (e, quindi, della Chiesa cattolica) sono esenti: lo sono solo se destinati alle attività sopra elencate. In tutti gli altri casi pagano regolarmente l’imposta: è il caso degli immobili destinati a librerie, ristoranti, hotel, negozi, così come delle case date in affitto.
- “L’esenzione vale per ogni imposta”.
In realtà l’esenzione dall’ICI (che è un’imposta patrimoniale) non ha alcun effetto sul trattamento riguardante le imposte sui redditi e l’IVA, né esonera dagli adempimenti contabili e dichiarativi. Infatti gli enti non commerciali, compresi quelli della Chiesa cattolica (parrocchie, istituti religiosi, seminari, diocesi, ecc.), che svolgono anche attività fiscalmente qualificate come “commerciali” sono tenuti al rispetto dei comuni adempimenti tributari e al versamento delle imposte secondo le previsioni delle diverse disposizioni fiscali.
- “Gli alberghi sono esenti”.
Attenzione, questa è insidiosa. Per dimostrare come l’esenzione prevista dalla norma sia iniqua, danneggi la concorrenza e non risponda all’interesse comune, viene citato il caso dell’albergo che, in quanto gestito da enti religiosi, sarebbe ingiustamente esente, a differenza dell’analogo albergo posseduto e gestito da una società.
Peccato, però, che l’attività alberghiera non rientra tra le otto attività di rilevanza sociale individuate dalla norma di esenzione. Perciò gli alberghi, anche se di enti ecclesiastici, non sono esenti e devono pagare l’imposta.  Ad essere esenti sono, piuttosto, gli immobili destinati alle attività “ricettive”, che è ben altra cosa. Si tratta di immobili nei quali si svolgono attività di “ricettività complementare o secondaria”. In pratica, le norme nazionali e regionali distinguono fra ricettività sociale e turistico-sociale:
§  La prima comprende soluzioni abitative che rispondono a bisogni di carattere sociale, come per esempio pensionati per studenti fuori sede oppure luoghi di accoglienza per i parenti di malati ricoverati in strutture sanitarie distanti dalla propria residenza.
§  La seconda risponde a bisogni diversi da quelli a cui sono destinate le strutture alberghiere: si tratta di case per ferie, colonie e strutture simili.
Entrambe sono regolate, a livello di autorizzazioni amministrative, da norme che ne limitano l’accesso a determinate categorie di persone e che, spesso, richiedono la discontinuità nell’apertura. Se si verifica che qualche albergo (non importa se a una o a cinque stelle) si “traveste” da casa per ferie, questo non vuol dire che sia ingiusta l’esenzione, ma che qualcuno ne sta usufruendo senza averne diritto. Per questi casi i comuni dispongono dello strumento dell’accertamento, che consente loro di recuperare l’imposta evasa.
- “Basta una cappellina per ottenere l’esenzione”.
Questa è più simpatica che ridicola. È del tutto falso che una piccola cappella posta all’interno di un hotel di proprietà di religiosi  renda l’intero immobile esente dall’ICI, in base al fatto che così si salvaguarderebbe la clausola dell’attività di natura “non esclusivamente commerciale”. È vero esattamente l’opposto: dal momento che la norma subordina l’esenzione alla condizione che l’intero immobile sia destinato a una delle attività elencate e considerato che – come abbiamo visto sopra – l’attività alberghiera non è tra queste, in tal caso l’intero immobile dovrebbe essere assoggettato all’imposta, persino la cappellina che, autonomamente considerata, avrebbe invece diritto all’esenzione.
- “Ma io conosco personalmente casi in cui quello che dici non viene applicato”.
Chi sbaglia, fosse anche membro della Chiesa cattolica, è tenuto a pagare, come qualsiasi altro cittadino che infrange la legge. Ciò non significa, tuttavia, che la legge sia per ciò solo sbagliata, non vi pare?
- “Persino l’Europa ci sta sanzionando”.
L’europa ha aperto due procedure di infrazione e in entrambi i casi ha deciso per l’archiviazione. Una terza procedura è stata aperta ora da un soggetto dichiaratamente ostile alla Chiesa cattolica e la procedura è allo stato iniziale.
Ad ogni modo, l’Europa ha espresso dubbi sempre e solo con riferimento alla presenza o meno di “aiuti di Stato”, ossia su presunti meccanismi distorsivi della concorrenza. Questione (peraltro già smentita due volte) che con i rapporti tra Stato e Chiesa nulla c’entra.
Riassumendo: il problema dell’esenzione dell’ICI alla Chiesa cattolica non è altro che un pretesto per attaccare quest’ultima ed è portato avanti con un accecamento pari solo all’odio per chi da due millenni proclama incessantemente Gesù Cristo al mondo intero. Basti pensare che, se venisse davvero meno l’esenzione per questi immobili perché ritenuta “aiuto di Stato”, si aprirebbe la strada all’abolizione di tutte le agevolazioni previste per gli enti non lucrativi, a partire dal trattamento riservato alle Onlus.
Ma questo non ditelo alle Onlus, loro sono meno misericordiose della Chiesa cattolica!

La fuga all'estero è soltanto a parole

da: La Bussola Quotidiana - Renzo Puccetti


Prosegue la campagna abortista; l’ultima iniziativa in ordine di tempo è il recapito di sacchi contenenti scatole di RU 486 al governatore del Piemonte che si era impegnato ad ostacolare la diffusione dell’aborto chimico nella sua regione. Per dare colore a tale iniziativa alcuni Radicali, tra cui il ginecologo Silvio Viale, hanno pensato di recapitare “i doni” travestendosi da Babbi Natale.

Qualcuno obietterà circa l’opportunità di promuovere un “pesticida antiumano”, come lo definì il professor Jerome Lejeune, proprio nel periodo che prepara la nascita di un certo bambino di nome Gesù; magari il mal di pancia accrescerà per l’uso di Babbo Natale, figura ispirata a San Nicola, il vescovo di Myra ricordato per la munificenza nel provvedere personalmente alla dote matrimoniale di fanciulle indigenti, ma che volete, i personaggi si conoscono e sono quello che sono, la sensibilità al sentimento religioso non è il loro forte. Certo che rivendicare come un successo le 1792 confezioni di RU 486 acquistate dalle strutture del Piemonte sulle 6700 di tutta l’Italia la dice lunga della passione che certi personaggi mettono nell’espletare le loro mansioni, evidentemente ci sono proprio portati. 

È in questa cornice che il 25 novembre il “Corriere Nazionale”, quotidiano tosco-umbro, a pagina 4 denunciava una vera e propria “fuga all’estero” per abortire da parte delle donne italiane. Nel pezzo, integrato da una intervista all’immancabile Viale, si dice che la Svizzera e la Francia sono «le principali mete del “turismo abortivo” dove una donna su tre è italiana». I motivi della fuga dall’Italia sarebbero i soliti: “privacy, vantaggi economici e attese ridotte al minimo”. Corbezzoli!  A leggere queste cifre uno potrebbe immaginarsi lunghe file di donne che dall’italico avido suolo valicano i confini verso gli erbosi pascoli transalpini, dove la fame di diritti riproduttivi è ampiamente saziata.

Leggendo l’intervista al ginecologo radicale ci si può però accorgere che egli dice una cosa un bel po’ diversa, laddove limita al solo Cantone Ticino quel terzo di donne italiane che abortiscono in Svizzera. Ora gli abortisti ci scuseranno se, in un eccesso di zelo, ci siamo permessi di verificare le cifre andando a controllare le fonti ufficiali. Per la Svizzera l’ufficio federale di statistica fornisce la cifra di 11.092 aborti per l’anno 2010, di cui 10.641 effettuati da donne residenti nella confederazione. Poiché qui non serve un matematico del calibro di Oddifreddi, si può facilmente calcolare per sottrazione che le donne non residenti che hanno abortito in Svizzera sono state 451.

Ora, anche se queste fossero tutte donne italiane, si tratterebbe di una percentuale di solo il 4%, che è un po’ più bassa rispetto a quella di un terzo evidenziata nel titolo. I calcoli completi li si può comunque fare per l’anno 2008, anno in cui nel citato Cantone Ticino sono stati eseguiti 682 aborti complessivi; di questi 206 sono riferiti a donne italiane che avevano attraversato la frontiera. In effetti 206 aborti corrisponde ad un terzo degli aborti, ma non della Svizzera, bensì del Cantone Ticino, cosa rilevante forse per i ticinesi, ma assai meno per gli svizzeri per i quali le italiane che vanno lì ad abortire rappresentano meno dell’1,9% di tutti gli aborti, ed ancora meno per gli italiani, per i quali 206 casi costituiscono appena lo 0,17% degli aborti effettuati nel nostro paese. Quanto poi alla Francia, altra nazione citata nell’articolo come meta di turismo abortivo, i numeri sono ancora più chiari. Nel 2007 gli aborti effettuati in Francia sono stati 213.382. Come riporta a pagina 126 la Revue française des affaires sociales del gennaio/marzo 2011, gli aborti effettuati in quel anno da donne straniere sono il 6%; di questi la maggioranza è costituita “essenzialmente da donne africane” (58%), mentre le donne provenienti complessivamente dai paesi dell’Europa dell’ovest costituiscono il 13% di quel 6% di straniere, cioè appena lo 0,78% di tutti gli aborti in Francia. In numeri crudi sono state 1.664 le donne dei paesi dell’Europa occidentale che nell’ultimo anno disponibile hanno abortito sul suolo francese ed è piuttosto difficile sostenere che queste fossero formate esclusivamente da donne italiane.

La fuga dall’Italia per andare ad abortire all’estero pertanto non esiste, ma questo è secondario. Come quel gran laicista di Voltaire insegnava scrivendo all’amico Thiriot il 21 ottobre 1736, “La menzogna è un vizio solo quando fa male. È una grandissima virtù quando fa del bene. Siate dunque più virtuosi che mai. Dovrete mentire come un demonio, non già timidamente, non per un po’, ma con coraggio e sempre. Mentite, amici miei, mentite, un giorno ve lo renderò”.  L’articolo è comunque interessante perché in esso lo stesso Viale sembra smentire il pericolo del blocco degli aborti a causa dei troppi medici obiettori denunciato soltanto poche settimane fa dai suoi colleghi aborti-facenti. Per Viale il vero problema non sono i medici obiettori, egli dice infatti che un 30% di ginecologi che praticano gli aborti è un numero sufficiente.

La responsabilità dell’emigrazione abortiva risiederebbe piuttosto nel doversi “sorbire” il colloquio al consultorio e la mancanza della RU 486, il “farmaco miracoloso”, come ebbe a definirlo il suo divulgatore, l’accademico di Francia professor Baulieu. Parlare in questo caso di miracolo parrebbe un po’ eccessivo, ma si deve riconoscere che fare sparire milioni di bambini su scala planetaria è roba che avrebbe fatto impallidire persino Houdini. È singolare come il tentativo di aiutare la donna a non abortire sia percepito sul versante del femminismo abortista come l’istituzione di un intollerabile “tribunale morale”, cosa che evidenzia una volta di più la contraddizione tra la prassi abortista e la tutela della maternità ipocritamente declamata nel titolo della legge italiana. “Di aborto ne ha sempre parlato chi di solito non se ne occupa, io dico che se non ci metti la faccia non capisci”, ha dichiarato molto divertito Silvio Viale. Molto meno divertito ricordo che tante persone ci hanno messo più che la sola faccia, ma la loro intera vita e spesso quella delle loro famiglie, ma l’hanno fatto in un modo opposto al suo: dando una chance ad ogni bambino destinato a nascere.

A quei tanti, generosi, ignoti benefattori che sono le braccia dell’organismo pro-vita, va la nostra ammirazione ed il nostro ringraziamento. Il 14 luglio 1941, in un momento buio della storia dell’umanità, Winston Churchill disse: “fate il vostro peggio, noi faremo il nostro meglio”. Oggi contro la cultura della morte il nostro meglio è difendere la bellezza della vita, contro la menzogna dire solo la verità, all’ignoranza rispondere con la conoscenza, all’abbandono contrapporre la condivisione; questo è il nostro meglio, questo è l’identikit ed il programma del pro-life.

Toh, il prete non è pedofilo e incastra i media irlandesi (e la pavida chiesa)

da: Il Foglio


Manca un mese a gennaio 2012. Una data a suo modo storica per la chiesa cattolica. Esattamente dieci anni fa, infatti, nel gennaio del 2002, un quotidiano dava notizia per la prima volta di uno scandalo lagato alla pedofilia nel clero. Fu il Boston Globe a riportare la vicenda di padre John Geoghan, il prete che costringerà successivamente il cardinale Bernard Law, allora arcivescovo di Boston, alle dimisssioni. Il prete che, accusato di aver abusato di oltre 130 bambini nell’arco di trent’anni di carriera, venne ucciso in carcere nell’agosto del 2003. A distanza di dieci anni, ancora il caso Geoghan rappresenta per molti un simbolo spaventoso del fallimento della chiesa: spostato di parrocchia in parrocchia nonostante i suoi crimini, ha mietuto vittime senza che nessuno abbia fatto nulla per opporsi. Dopo Geoghan è arrivato padre Kevin Reynolds. Prete nella contea di Galway, nell’ovest dell’Irlanda, è divenuto anche lui il simbolo dei fallimenti della chiesa nel suo paese, l’esempio a cui guardare quando si vuole parlare della piaga della pedofilia nel clero, una piaga sulla carta enorme se si pensa che è soltanto ai fedeli irlandesi, e non a quelli di altre chiese, che Benedetto XVI ha dovuto scrivere una lettera sostanzialmente di scuse e penitenza.
Ma la domanda che oggi molti si fanno è una: Papa Ratzinger avrebbe scritto ugualmente la sua lettera se avesse saputo la verità su Reynolds? Probabilmente sì. Seppure le ultime notizie relative al prete di Galway insegnano quanta superficialità (o peggio) vi possa essere nei media quando decidono di impiccare sulla pubblica piazza un prete per il supposto crimine di pedofilia. La notizia di queste ore, infatti, è clamorosa: Reynolds, il “Geoghan europeo” come lo chiama John Allen in un suo lungo reportage, è innocente. Non ha mai abusato di bambini. Non è un pedofilo. Sessantacinque anni, parroco irlandese che aveva trascorso parte della vita come missionario in Kenya, Reynolds da diversi mesi è diventato suo malgrado una “star” della televisione nazionale irlandese Rte. Una trasmissione provocatoriamente intitolata “In missione per predare” l’ha messo nel mirino: Reynolds, come altri preti irlandesi, è partito per la missione per “predare” minorenni e non per “pregare” con loro. Una giornalista di Rte è addirittura partita per il Kenya. Qui ha intervistato una donna di nome Veneranda che ha dichiarato che Reynolds l’aveva violentata nel 1982. A seguito di quella violenza la donna era rimasta incinta. Sheila, la figlia quattordicenne di Veneranda, è cresciuta senza suo padre, appunto Reynolds. Veneranda ha anche dichiarato che, prima dell’arrivo di Rte in Kenya, Reynolds l’ha contattata offrendo soldi in cambio del suo silenzio.
Forte di queste accuse, Rte è andata fuori dalla parrocchia di Galway di Reynolds il giorno in cui questi stava somministrando la prima Comunione a dei bambini: “Ecco” ha dichiarato una voce fuori campo “il prete pedofilo e stupratore libero di dare la prima Comunione a dei bambini”.
Reynolds ha però reagito. Ha dichiarato alla stampa di essere innocente, di non aver mai abusato di minori e che, per dimostrare la sua non colpevolezza, si sarebbe sottoposto al test di paternità. Rte non gli ha creduto e, in attesa dei risultati, ha continuato a infangarlo. Intanto anche la chiesa si adeguava alle accuse. E in linea coi nuovi protocolli rimuoveva immediatamente Reynolds dai suoi incarichi. Dopo qualche giorno due test del Dna effettuati da due società diverse scagionavano del tutto il prete irlandese stabilendo che non è Reynolds il padre del bambino. E’ stato il direttore di Rte Noel Curran, prima di dimettersi, a dettare un comunicato di scuse che recita così: “Rte comunica senza riserve che le affermazioni fatte contro padre Kevin Reynolds sono senza qualsivoglia fondamento e false, e che padre Reynolds è un sacerdote della massima integrità, il cui servizio senza macchia reso alla chiesa per quarant’anni ha dato un valido contributo alla società in Kenya e in Irlanda sia nel campo dell’istruzione sia nel campo della pastorale”. Ha detto ancora Curran: “Questo è stato uno degli errori editoriali più gravi che io abbia mai fatto”.
La vicenda ha creato qualche imbarazzo anche nelle gerarchie irlandesi. L’arcivescovo Diarmuid Martin di Dublino, che più di altri ha accusato i vescovi locali e anche la curia romana di non aver fatto abbastanza per arginare il problema della pedofilia, ha detto che nonostante tutto a suo avviso i media irlandesi non hanno pregiudizi nei confronti della chiesa.

domenica 4 dicembre 2011

Una volta si aveva paura dei vampiri, oggi si ha paura di fare un figlio

da: L'Occidentale di Carlo Bellieni


Sembra che la scena più horror degli ultimi tempi in un film sia stata… un parto! Già, la nascita del figlio della coppia di vampiri della saga Twilight nel film Breaking Dawn: nascita spontanea, di un bambino che in nulla è apparentemente diverso da un altro dei miliardi di bambini nati al mondo, ha determinato svenimenti, capogiri, paura. Ragazzi! Abituati a vedere sventramenti, attacchi cannibali, stupri… svenite per un parto?

Mica tanto strano. E’ che nella società postmoderna c’è un’epocale censura su tutto ciò che è naturale, mentre si gonfiano e banchettano nelle nostre giornate paure false, bisogni falsi, desideri falsi, piaceri falsi. E quello che è naturale diventa alieno, dunque spaventoso.

Si arriva poi a quello che in un recente manuale di sociologia ho definito “pedofobia” (Advances in Sociology, vol 13, Nova Publisher, USA), cioè la fobia per l’idea stessa di avere un figlio. Ragazzi, saprete tutto ma proprio tutto su come non avere figli ma niente, proprio niente, su come averli. Ringraziate ballerine e cantanti e disinvolti giornalisti, che fare un figlio è diventato “un diritto”, e dunque che ormai pensiate che, come ogni diritto, un figlio si possa avere “a piacere”, o “a comando”, e che ovviamente sia indolore, automatico, meccanico, ripetibile a piacere, quando lo voglio, come lo voglio; e soprattutto inconciliabile con la vita giovane, giovanile, un ostacolo, la “ciliegina sulla torta” che “ci si regala” (unico e perfetto altrimenti si butta via prima che nasca), quando abbiamo soldi, lavoro, progetti realizzati… e soprattutto quelle benedette scarpe della commessa del negozio pre-maman, che la pubblicità TV di una marca automobilistica ci fa vedere come desiderabili molto più che avere un figlio.

E allora il figlio della coppia di vampiri (che la vampiressa si rifiuta di abortire) diventa un horror: ma come… far nascere un figlio da giovani! e indesiderato dal padre! e che fa soffrire la madre! Abominio. Già, una volta si aveva paura dei vampiri. Oggi si ha paura di fare un figlio.

Tanto che si moltiplicano i cesarei, non solo per motivi clinici o per paura (o perché oggi c’è la bella invenzione di promuovere i figli concepiti in vitro, chiamandoli “figli preziosi” – definizione ufficiale da textbook- e regalare loro un tasso di cesarei maggiori della media); ma anche perché le mamme non hanno capito che devono sbrigarsela loro; con gli aiuti della medicina e delle ostetriche, ma devono spingere, sudare… e che diamine: un taglio vi prego! E non è colpa delle donne ma di una cultura che non insegna niente sul parto, sul sesso vero (che non è raccontare quanto infastidisce o è carino il preservativo).

Non è un caso che questa cultura pedofobica sia vincente: il mondo oggi fa paura, e l’idea stessa di fare figli è una contraddizione. Basta aprire un giornale e trovate solo notizie di crisi, epidemie e stupri; sarà un caso, ma io ci vedo dietro una mentalità che odia profondamente quello che c’è di più umano e più naturale; spesso per vendere; ancor più spesso per desiderio di essere creatori (finti) di quello che abbiamo intorno, creando un mondo di plastica e cartone e preferendolo per diffidenza a quello fatto di fiori, ma anche bestie selvagge, di sole ma anche di velenosi animali, che abbiamo da miliardi di anni.

E allora il figlio può essere indifferentemente fatto in laboratorio, le cellule “si creano” (non è vero ma così dicono i giornali), e via dicendo; e come ho cercato di spiegare nel romanzo “Volere e Volare” (Ed Cangtagalli), forse c’è una regia dietro. Ipotesi ardimentosa? Provare per credere. Se si arriva ad avere orrore di un parto e non di uno stupro, un motivo c’è.