Avevano dimostrato di essere i migliori in Iraq e in Afghanistan
Quando è arrivato dall’alto il fuoco del mortaio, Tim Hetherington e Chris Hondros se ne stavano acquattati proprio sulla linea del fronte, a Misurata, con le loro machine fotografiche. La notizia della morte l’ha data Andre Liohn, un collega fotogiornalista, tramite il suo profilo Facebook; nei minuti confusi della ricostruzione la morte di Hondros è stata smentita, declassata a “gravi condizioni” e poi riconfermata dalle testimonianze via Twitter che arrivavano da altri giornalisti in Libia.
Chris Hondros è nato a New York, figlio di due emigrati dalla Grecia e dalla Germania sopravvissuti alla guerra e negli ultimi dieci anni ha girato il mondo per fotografare la guerra dalla primissima linea: ha scattato immagini in Afghanistan, Sierra Leone, Liberia, Palestina, Kashmir e molti altri posti, anche se sono le immagini dall’Iraq che lo hanno fatto diventare un’icona del mestiere. Nel 2005 ha immortalato una bambina irachena insanguinata dopo che i soldati americani avevano fatto fuoco su una macchina che non si era fermata al checkpoint. Quell’immagine si è impressa nella memoria della guerra irachena come un simbolo. Come succede a tanti fotogiornalisti, Hondros vendeva le foto a chi le comprava e i suoi scatti sono finiti sui migliori quotidiani e magazine del mondo. Nel 2004 è arrivato alla finale del Pulitzer per una serie di scatti in Liberia e negli anni i riconoscimenti sono arrivati a dozzine.
Viaggiava spesso con il coetaneo Hetherington, quarantun anni e una vocazione tardiva per la fotografia. Studiava inglese a Oxford prima di mettersi in strada per seguire le guerre più pericolose del mondo. In Liberia si muoveva così tanto fra le file della guerra civile che il governo del dittatore Charles Taylor lo ha costretto ad andarsene, mettendo una taglia sulla sua cattura. Nel 2007, dopo la Liberia, si è preso una pausa dalla professione: troppo pericolosa, troppo snervante, pensava, e ha messo la sua esperienza africana al servizio di una commissione delle Nazioni Unite.
L’inattività è durata poco, fino a quando Vanity Fair gli ha chiesto di andare assiema al giornalista Sebastian Junger in Afghanistan per un anno a raccontare la vita di un avamposto isolato nella valle di Korengal; quell’avamaposto era stato battezzato dal plotone “Restrepo”, il cognome di un compagno caduto sotto i colpi dei talebani. L’anno scorso lo strepitoso reportage dei due giornalisti è diventato un film (“Restrepo”, appunto), racconto di guerra che difficilmente potrà essere superato anche appellandosi alla finzione cinematografica.
“Restrepo” è una parola definitiva sulla guerra in Afghanistan. Una guerra lunga, lenta, combattuta in montagna colpo su colpo, dove i soldati scrutano l’orizzonte ossessivamente come nel romanzo di Buzzati; non ci sono spostamenti veloci, grandi basi con l’aria condizionata e Burger King: solo una piccola costruzione abbarbicata sul costone che guarda un costone uguale dove, invece, sono abbarbicati i talebani. I soldati del secondo plotone della fanteria si lavano le uniformi e le mettono a stendere sulle rocce, si raccontano storie mentre di notte osservano accovacciati i traccianti del nemico che fischiano sopra e sotto. Questa band of brothers esce compatta non solo per stanare il nemico ma per incontrare la popolazione nei villaggi, i capi tribù con la barba tinta al’enné e convincerli a ribellarsi ai talebani.
Offrono soldi e sigarette, come si fa sempre nella guerra, e le loro sembianze di ragazzotti del Montana o di chissà dove ancora non perdono mai i tratti umani, come succede sempre nella guerra. Hetherington è il coraggioso autore del più onesto dei racconti della guerra lunga d’Afganistan. Quella di Libia all’apparenza è molto diversa, ma si sta modellando a immagine del pantano di Kabul. Nell’ultimo messaggio su Twitter, trasmesso martedì, Hetherington parlava di una città sotto assedio e “nessun segno della Nato”. Così diceva prima di di quel colpo di mortaio a Misurata.
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